aspettando il premio fava giovani, tre domande a diego bianchi

di Natya Migliori

Diego Bianchi, autore, regista e conduttore televisivo, oggi alla seconda stagione di Propaganda Live, fra i programmi di informazione più seguiti in Italia. Sei partito come Zoro circa quindici anni fa. Chi era allora Zoro e chi è oggi Diego Bianchi?

So di deluderti, ma in realtà per me grande differenza non c’è e non c’è mai stata. Zoro non era un “personaggio”, ma il nick name che mi misi quando aprii il blog. All’epoca andavano di moda molto più di adesso i soprannomi e mi venne quasi spontaneo utilizzare Zoro. Un po’ perché mi chiamo Diego, un po’ perché mi mascheravo da Zorro, un po’ per la “ere” alla romana…Però sia le cose che scrivevo sia i miei video mi hanno sempre rappresentato. Ciò che è indubbio è che in tanti anni si cresce, si matura ed è chiaro che nessuno di noi può essere esattamente identico a prima. Nel lavoro tante cose si sono sviluppate, sono cambiate, dal mio punto di vista e sotto certi aspetti migliorate. Alcune competenze che all’inizio avevo abbozzate o tentavo di avere magari adesso le ho rafforzate.

Tu parti da autodidatta…

Si, direi che sono un autodidatta a tutto tondo. Non sono un giornalista “formalmente” inteso, non appartengo a un albo, non ho mai fatto un corso da montatore o da operatore, nonostante tutto quello che vedi lo monti e lo giri io, a parte quando viene a darmi una mano Pierfrancesco  (Pierfrancesco Citriniti, seconda camera di Diego Bianchi e suo collaboratore dalla prima stagione di Gazebo nel 2013, ndr), non ho mai nemmeno fatto un corso di sceneggiatura…Alla fine, maluccio o benino, viene fuori quello che faccio adesso. E in questo momento posso dire che sono molto contento del mio percorso in televisione, prima da solo e poi con la banda che ho messo insieme e che mi segue ormai da sei anni.

I tuoi programmi hanno sempre avuto un piglio e una personalità molto ben definite e sicuramente diverse dal resto del panorama nazionale televisivo. Bisogno tuo o necessità contingente?

Devo premettere che io non ho mai bramato per fare televisione, le cose son venute da sé negli anni, dalla Dandini in poi. Ma sin da allora e fino all’ultima puntata di “Propaganda live” di venerdì scorso, ho sempre fatto un ragionamento: nel momento in cui hai la possibilità o la fortuna di condurre una trasmissione in maniera autorevole e credibile, devi cercare di lasciare un segno, mettendoti nei panni del telespettatore e facendo qualcosa che piacerebbe anche a te vedere. Che poi questo ragionamento di base abbia significato creare qualcosa di diverso dagli altri programmi, è probabilmente solo una conseguenza, non una decisione a priori. Certo è che, proprio per il nostro modo di essere, noi possiamo piacere molto o non piacere per niente, ma difficilmente passiamo inosservati.

Siamo a pochi giorni dal premio Giuseppe Fava dedicato alle giovani leve del giornalismo. Ad un giovane che oggi, in Italia, volesse approcciarsi al giornalismo, cosa consiglieresti?

Il giornalismo resta una professione sicuramente interessante e stimolante che può portarti, avendone l’opportunità, a conoscere il mondo. Opportunità che è anche bene crearsi da soli. Ciò che spinge a fare il giornalista è fondamentalmente la curiosità, quindi il punto di partenza dovrebbe essere sempre non farsi raccontare troppo le cose dagli altri ma cercare il più possibile di andarle a vedere con i propri occhi e documentarle. Segue poi la grande responsabilità, che io per primo ogni volta mi porto addosso, di riuscire a raccontare in maniera il più possibile “dritta” e senza troppi arzigogoli e ornamenti ulteriori. Spesso ci si trova a contatto con realtà già di per sé tragiche e dure, quindi non ha senso caricarle di ulteriore patos. Nel caso mio, piuttosto preferisco la linea della sdrammatizzazione, che non vuol dire perdere di vista il dramma in sé, ma solo trattarlo con un minimo di leggerezza, anche con gli stessi protagonisti, che spesso apprezzano, molto. Li aiuta a non sentirsi dei “casi umani”. Detto questo, se un giovane ha dentro la curiosità e l’esigenza di guardare con i propri occhi e raccontare, oggi, con i social e con Internet, le possibilità di realizzare e diffondere dei bei video, delle belle foto o delle belle interviste sono pressoché infinite. Ciò non vuol dire ovviamente che chiunque può fare il giornalista. Bisogna sviluppare delle professionalità. Ci sono i giornalisti bravi e i giornalisti meno bravi e su questo non ci sono dubbi. E avere una telecamera in mano non vuol dire che necessariamente stai a fa’ Michel Moore. Una telecamera o una penna in mano sono strumenti. Ma in questo momento le possibilità di distribuzione sono talmente tante che il mio consiglio, alla fine, è buttatevi, fate, inventatevi cose piuttosto che copiarne altre o, al massimo, copiate da quelli bravi.

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