Arringa in difesa del cavaliere mafioso

Arringa in difesa del cavaliere mafioso

da “I Siciliani”, ottobre 1983

Quand’ero giovanissimo, poco più di vent’anni, io feci per qualche tempo l’avvocato. Non fui granché! In campo civile mi tediava la ricerca della giurisprudenza, il linguaggio delle citazioni e comparse di risposta, le scadenze delle procedure, un paio di volte m’inventai letteralmente citazioni di sentenze di cassazione che non erano mai state emesse, e il tribunale ne tenne conto, sicché capii che anche i giudici si rompevano le scatole a controllare la giurisprudenza. E questo mi deluse.
Altre volte sbagliai i termini di notificazione e i miei clienti, che ragionevolmente speravano di ottenere verdetti favorevoli per acclamazione, si videro invece annientare da sentenze contrarie. Alcuni di loro mi attesero poi per mesi sotto casa, con pesanti randelli. E questo m’impaurì!
Arrivavo in ritardo alle udienze, mi appassionavo solo alle cause in cui i miei clienti avevano ragione: le altre in cui avevano torto mi facevano schifo, tutto ciò era contrario alla professionalità di un buon avvocato il quale deve avere un animo di pietra, né mai valutare il torto o la ragione etica della causa, ma semplicemente la possibilità di vincerla.

Nel penale praticamente era ancora peggio, poiché mi commuovevo. Per me il penale era semplicemente una grande avventura poetica. Sceglievo i clienti, che fossero soprattutto poveri e innocenti, questa lotta fra la vittima e l’ingiustizia mi dava profonde emozioni, ma non era redditizia, gli innocenti quasi sempre sono ugualmente condannati, e chissà perché sono quasi sempre indigenti, e comunque non pagano. Praticamente feci la fame. La mia avvocatura, dicevo, non fu davvero granché!
E tuttavia ancora oggi, dinanzi a eventi o personaggi che tutti accusano, mi viene talvolta l’irresistibile fantasia, la nostalgia, il sogno di potermi gettare quella vecchia toga sulle spalle, e difendere qualcuno dinanzi a una grande corte di giustizia. Un imputato già quasi fatalmente condannato, una causa che sembra irrimediabilmente già perduta!
Ecco, dinnanzi ad un grande tribunale, mi piacerebbe fare un’arringa in difesa di un mafioso, meglio se cavaliere del lavoro, contro il quale fossero state scoperte irrefutabili prove e, per esse, condotto in catene dinnanzi ai giudici. Che io immagino severi e integerrimi, così come il pubblico dovrebbe essere composto da cittadini di assoluta onestà, buoni padri di famiglia di ogni condizione sociale, e quindi anche accademici e manovali, chirurghi o impiegati municipali, e tutti alieni d’ogni interesse pubblico affinché la loro serenità morale non possa essere turbata da alcuna paura o avidità.
Immagino la luce e il solenne silenzio dell’aula, il piccolo crocifisso nero appeso alla parete di calce. L’imputato è nella gabbia, immobile, forse anche elegante, forse con i capelli grigi. Età indefinibile. Più che un uomo vivente è il monumento di se stesso. Non parla, trasale, non guarda nessuno in faccia, non ha chiesto considerazione, né chiede ora clemenza, né potrebbe chiederla non avendo mai confessato. Eretto, malinconico, immobile, egli attende. Per un imputato così, in una nazione così, possibilmente dinnanzi alla giustizia di Catania, mi piacerebbe essere quell’avvocato che non riuscii ad essere e che avrei potuto diventare.

Paludato dalla vecchia toga, dinnanzi a quegli inviolabili giudici e quel pubblico di galantuomini, svolgere la seguente arringa. Da iniziare con un tono sommesso, affabulante, proprio con un tenue gesto per indicare l’imputato:
Signori della Corte, consentitemi di iniziare con un gentile ricordo; quel lontano giorno in cui il Presidente della Repubblica consegnò al mio cliente le insegne di cavaliere del lavoro. Abbracciandolo e baciandolo, il grande vegliardo testualmente disse: «Bravo cavaliere, lei fa onore alle virtù italiane, tenacia, fantasia, laboriosità e intelligenza. Le sono grato a nome di tutti gli italiani. Congratulazioni!». Il capo dello Stato sapeva già allora quanto il mio difeso fosse ricco, e le sue parole significarono dunque che la ricchezza non è un reato.
In effetti il Cavaliere possiede terre, industrie, banche, ville, quadri, gioielli e capolavori d’arte, le sue campagne sono rigogliose di grano, ulivi, aranci, frutti e fiori, i suoi splendidi palazzi sono disseminati in tutte le grandi capitali europee, nelle sue fabbriche si possono costruire navi, giocattoli, vestiti, scatolette di carne, cervelli elettronici, trattori, concimi chimici, oggettini sacri, gabinetti, stufe, bidet, e se egli volesse anche cannoni e mitragliatrici. Io non so quale sia la vostra idea, ma probabilmente oltre che ricco lo ritenete anche felice, poiché pensate che tanta spaventosa ricchezza possa dare a un uomo tutto quello che egli desidera.
E in verità gli piacerebbe avere un’amante diciottenne, alta, delicata, dolce, capace di straordinarie invenzioni erotiche, ma egli non ha tempo. Gli piacerebbe nuotare in una delle sue piscine, giocare a tennis in uno dei suoi roof-garden, coltivare piccole orchidee, giocare a tressette e scopone con gli amici, ma egli non ha tempo. Gli piacerebbe camminare per strada da solo, bighellonare a guardare la gente e le vetrine, incontrare dimenticati compagni di scuola e parlare con loro dei vecchi amori, andare per taverne e bigliardi, ma egli non ha tempo. Egli non è felice. Se essere felice per ragione della soverchia ricchezza, in un Paese tormentato dalla miseria dei più, può essere ritenuta una colpa, ebbene io posso garantirvi che egli non è felice…»

I giudici guardano già con un sorriso ironico, pensano: chiacchiere, i capi d’accusa sono ben diversi, i reati più infami. Essi guardano perciò con sfottente benevolenza, ma non immaginano, non sanno cosa li aspetta. L’arringa continua, il tono gentile è finito, la voce comincia a diventare sferzante:
Stabilito dunque che né la ricchezza, né la sospetta felicità di quest’uomo costituiscono reato e ch’esse pertanto non possono indurvi a rancore, odio o pregiudizio contro l’imputato, quali colpe possono averlo trascinato qui in catene? Egli non ha mai personalmente operato violenza fisica contro alcuno, mai ucciso di suo pugno o tentato di uccidere, mai picchiato o levata la mano per un semplice schiaffo. E allora? Allora voi dite: associazione per delinquere di stampo mafioso! Perfetto! Ci siamo! Ordunque prima di proseguire nella convinta e appassionata dimostrazione d’innocenza del mio difeso, io voglio umilmente invitarvi a guardare la società nella quale viviamo. Oh, non che io abbia voglia di tediarvi con le solite, vecchie retoriche sulle disparità e ingiustizie sociali, sui poveri abbandonati al loro destino, sul Nord avido e speculatore e il Sud ignorante e depredato, sulla moltitudine di esseri umani costretti ad abbandonare case e famiglie per migrare sulla faccia della terra… Tali cose sono state dette tante volte e non è cambiato niente nella nazione, sicché non vale più la pena. Tutte cazzate. Lasciamo dunque perdere poveri, umili, diseredati, disoccupati, pensionati, rompono le palle, facciamo conto che siano tutti morti oppure definitivamente schiavi senza diritto di parola. Il discorso è diverso: se qualcuno non è d’accordo, che venga subito avanti a smentirmi!
Pausa. Gesto gentile, ma perentorio di sfida:
Io qui voglio parlarvi infatti di società e potere, cioè di questa parte della società, l’unica che conti in questo paese e per la quale l’unica cosa che conti è il potere. Il grande gioco appunto, nel quale ognuno si serve di tutti gli altri o soltanto di colui che in quel momento gli è utile, abbandonandolo subito quando non serve e cercandone un altro che magari ieri era nemico e oggi invece serve da alleato, e domani tradendo anche costui, per un altro alleato ancora più importante, l’uomo politico stringendo accordi col feroce criminale per avere i voti di un territorio, e il criminale cercando a sua volta il banchiere che gli consenta di nascondere migliaia di miliardi della droga, e il banchiere cercando ministri e generali che gli consentano tali gigantesche frodi, e costoro scatenando il terrorismo perché il popolo, travolto dalla paura, continui a concedere la sua stima ai governanti, e costoro a loro volta circuiti dai grandi operatori dei capitali per usufruire ed appropriarsi del denaro pubblico, e a tal fine cercando protezione di magistrati che possano paralizzare, nascondere, inquinare, archiviare, in cambio ricevendo avanzamenti di carriera e potenza, e infinitamente così, i magistrati assolvendo i criminali che danno i miliardi ai banchieri, che a loro volta procurano voti per gli uomini politici, che a loro volta decidono le opere pubbliche e gli avanzamenti di carriera… Il grande gioco.
Tranne una minoranza di candidi imbecilli, che cercano sempre più stancamente di lottare in questa nazione, di conquistare la vita secondo merito, tutta questa società è fondata sul potere e basta, esso è la qualità umana dominante, non c’è niente di nobile, piacevole, dignitoso, ambito dall’uomo che possa realizzarsi fuori dal potere, né un appalto o un traffico di droga, né costruire ponti, ospedali, scuole, né diventare generali o procuratori. Questa è la società che per interesse o paura, inettitudine, ignoranza, stupidità, abbiamo consentito che si costruisse, una struttura dentro la quale un uomo per occupare il suo posto, secondo la sua smisurata o miserabile ambizione, voglia egli essere un professore d’università o un netturbino, primario d’ospedale o infermiere, proprietario di banche o pizzicagnolo, attore di teatro o giornalista di televisione, deve necessariamente stare dentro il potere, assoggettarsi a qualcuno ed esserne protetto, appartenere a una congrega, un partito, una corrente, una semplice associazione di leccaculo, e nemmeno questo è sufficiente, serve soltanto a legittimare la richiesta, poiché c’è poi da pagare la tangente, la tariffa, la percentuale, il prezzo della corruzione… La P2 venne eliminata solo perché in troppo brutale concorrenza: ma era soltanto il teorema di vertice di una norma contro la quale da trent’anni nessuno osa ormai ribellarsi…

Pausa di riposo per riprendere fiato.
Accasciati dentro la toga quasi rimpiccioliti di statura. E’ un trucco! Fa sempre un grande effetto simulare sfinimento, restare qualche secondo con gli occhi chiusi, magari mormorare qualche parola inintelligibile, la gente non capisce se avete perduto il filo del discorso e state per crollare, oppure state meditando un colpo di scena. Stanno tutti col fiato sospeso.
Di solito bisogna ricominciare con un grido stentoreo in modo da rimminchionire gli astanti (mi ricordo l’avvocato Albanese, mio maestro di arte penale, il quale usava così e i giudici si paralizzavano di colpo), oppure con una voce sommessa, parole lente e appena mormorate in modo che gli astanti trattengano il fiato, per capire, pensino «Ma che diavolo sta dicendo» e avete così il tempo, dolcemente, di dire cose terribili che restano agli atti…
Questa è dunque la società, questa la struttura civile, cioè l’abitudine mentale e politica e perché ciò possa modificarsi si dovrebbe distruggere questa civiltà. Non c’è altra soluzione: distruggere questa civiltà e crearne un’altra! Ci vorrebbe una guerra che lascia solo superstiti, così poveri, così impauriti da dover necessariamente inventare una società diversa da quella che li ha portati alla strage, oppure una rivoluzione per la quale metà della popolazione uccida senza pietà l’altra. E sicuramente, signori giudici, che siete lì appunto e soprattutto per garantire l’inviolabilità della vita umana, certamente non sperate in una tragica guerra, città rase al suolo, popolazioni sterminate, capolavori distrutti, né vi augurate certo una rivoluzione, la nazione insanguinata, i fratelli che uccidono i fratelli, e tutta questa terribile cosa solo per modificare questa società… Il fatto stesso che voi siete giudici e cercate di applicare la legge per proteggere e mantenere questa società, significa che ci state comodi, contenti e convinti…

Pausa malinconica. Un lieve singulto di riso come ad un pensiero che susciti irresistibilmente ilarità. La mano levata a indicare l’imputato, quattro o cinque passi attorno allo stesso, come fosse proprio lui a destare tale ilarità. Ma non è così.
A questo punto dentro questa società, un uomo, anzi un galantuomo nel senso letterale del termine, non l’individuo italiano che crede ai manifesti, ai programmi politici, alla pubblicità televisiva, ai programmi di governo, poiché quello è un perfetto minchione e, con permesso della corte, non lo prendiamo in considerazione… Voglio dire un uomo al quale attribuiamo un quoziente di intelligenza normale, e quindi anche di furbizia, e perciò rispetto per se stesso, amore per la vita… cosa fa un uomo per sopravvivere in questa società dove ogni azione o successo dipende dal potere che egli può esercitare, e quindi anche dalla forza, dal prestigio che riesce ad imporre…? Ci sono quelli che si rassegnano, già stanchi alla sola idea della ribellione, si intanano, si acquattano, accettano d’essere servi e clienti, subiscono sorridendo la prepotenza, pur di stare comodi al sicuro, s’esercitano alle arti di leccaculo… E voi non direte che questa sia la soluzione più dignitosa, non vorrete indurre questo mio cliente così altero, così indubbiamente intelligente, colto, sensibile, a rassegnarsi d’essere come quei vermi…? E invece ci sono quegli altri che si ribellano, non sanno trovare altra soluzione, la collera e la passione li travolgono, afferrano un’arma, una pistola, un Kalashnikov, un chilo di dinamite, e cominciano a sparare e menare strage, ammazzano i politicanti, i giudici, i giornalisti, nella illusione di cambiare, suggerire all’imputato la via del terrorismo e dell’omicidio! Infine ci sono quelli che semplicemente, civilmente, pensano: perché opporsi? Per difendere cosa, in nome di che, per conto di chi? Questa è la società nella quale mi è stato dato nascere, non l’ho organizzata io, non ho colpa, e poiché non ho l’animo dell’assassino, e però nemmeno quello dello schiavo, allora meglio stare dentro questa cosa, quanto più sorridente e sereno possibile, per capirne perfettamente le regole, applicarle e usufruirne. Il mio cliente ha scelto questa soluzione, mi inchino alla sua intelligenza. L’intelligenza è reato in regime tirannico, non certo in democrazia!

Fermo, immobile, la mano levata verso l’imputato Cavaliere, quasi a indicarlo all’ammirazione di tutti. Di scatto poi verso i giudici:
Voi dite che costui ha dato quantità di denaro ai politici, uomini di governo, assessori e forse ministri, per averne in cambio appalti pubblici, opere, contributi? E perché gliene fate colpa? Se non avesse dato quelle quantità di denaro avrebbe mai ottenuto quei giganteschi appalti, e memorabili opere, e favolosi contributi? Voi dite ch’egli ha pagato malandrini e criminali perché gli garantissero sicurezza e serenità nel suo lavoro e nei suoi cantieri? E che avrebbe dovuto fare? Rivolgersi a un inerme appuntato dei carabinieri o alle guardie notturne, e lasciare che le sue fabbriche fossero devastate, le sue aziende bruciate, le sua persona sequestrata? Avrebbe dovuto consegnarsi spontaneamente ai malfattori? Voi dite ancora che nelle sue banche ha riciclato il denaro infame della droga? Bella questa! Un banchiere deve fare il banchiere! Un banchiere deve incassare il denaro e reinvestirlo, utilizzarlo e concederlo a prestito, per lui le centomila lire dell’accattone sono identiche alle centomila lire del grande chirurgo! Questo vorrei vedere, che il banchiere si trasformasse in poliziotto con tutti i clienti: chi le ha dato queste centomila lire, voglio le prove! Tutto quello che accade in questa nazione passa attraverso le banche, finanziano i giornali, industrie, partiti, associazioni, uomini politici, le banche sono padrone di questa nazione, non può accadere niente senza le banche, anche la Fiat si fermerebbe!

E a questo punto immagino un sorriso di misteriosa benevolenza e dei passi lenti verso l’imputato fissandolo bene negli occhi, sempre con quel sorriso, come a dire: tranquillo Cavaliere, li abbiamo nel pugno. E infatti, volgendosi alla corte con un tono morbidissimo:
Eccellenza presidente e illustrissimi signori della corte, gentili cittadini che ascoltate con tanta attenzione ed ai quali è giusto che anche mi rivolga, essendoché la giustizia si fa in nome del popolo, consentitemi un breve, illuminante apologo finanziario. Prendiamo una grande somma di denaro, poniamo seimila miliardi, cioè sei milioni di milioni, e mettiamola a disposizione di un grande ente pubblico, per esempio la Regione siciliana, che ha responsabilità d’amministrare politicamente cinque milioni di persone. Seimila miliardi suddivisi in sei esercizi finanziari, consentono una disponibilità di spesa di mille miliardi l’anno. Orbene, poiché il costo medio del lavoro per un operaio, un buon operaio qualificato, è di circa quindici milioni l’anno, si avrebbe la fantastica possibilità di garantire lavoro di alta dignità ed eccellente remunerazione a ben sessantaseimilacinquecentosessantasei cittadini siciliani attualmente disoccupati, il lavoro dei quali, a sua volta, consentirebbe di costruire in Sicilia opere pubbliche fondamentali, la cui mancanza relega questa nobile regione al rango di terzo mondo coloniale, cioè bacini idrici e dighe per l’irrigazione delle terre, nuove strade e autostrade, grandi ospedali moderni, impianti sportivi e turistici in ogni parte dell’isola, e tutto questo per sei anni consecutivi, trasformando prodigiosamente il volto della regione e salvando dalla miseria, dalla emigrazione e dalla dilagante vocazione criminale gran parte di quei fratelli siciliani, la cui disperazione ammorba tragicamente la vita sociale…

Nuovo sorriso amabile ai giudici, che si presume intanto stiano immobili a bocca aperta, e identico sorriso anche all’imputato, per significargli:
Cavaliere, ascolta, poiché per te questa dovrebbe essere poesia.
Gesto bizzarro in aria, quei geroglifici, che non significano niente e possono significare tutto:
E c’è di più, miei rispettabili amici! Consentitemi di chiamarvi così poiché, sia pur cortesemente lottando, siamo qui tutti insieme per un unico scopo che è quello di far giustizia. Quei settantamila disoccupati e poveri cristi, per la maggior parte giovani, che potrebbero trovare finalmente un buon salario e una sicura dignità civile, non percepirebbero più ovviamente il sussidio di disoccupazione, poniamo trecentomila lire mensili a testa, che per settantamila, farebbero ventuno miliardi al mese, cioè duecentocinquanta miliardi l’anno, millecinquecento miliardi in sei anni, con i quali si potrebbero risolvere un’infinità di altri piccoli, maligni problemi, che avvelenano centinaia di comuni. E alla peggio costruire a Catania e Palermo i due più moderni stadi polisportivi di tutta Europa, risparmiandoci la vergogna d’essere considerati, come ora siamo, peggio del più miserabile paese della più nera Africa…

E qui, come direbbe Victor Hugo, avviene la folgore, l’inatteso, l’impensabile.
Silenzio assoluto. Tutti infatti pensano: «Bello! Ma quei seimila miliardi però non ci sono!» E la rivelazione li annienta:
Ebbene, nei sotterranei di alcune grandi banche siciliane, sono congelati ben seimila miliardi di residui passivi della Regione, cioè avanzi di bilancio e somme che la stessa Regione, dice per mancanza di progetti, dice per errori e ritardi burocratici, non è riuscita a spendere. E allora signori giudici, che avete fatto trascinare qui in catene codesto uomo, sol perché candidamente accetta nei suoi piccoli forzieri privati denaro proveniente talvolta da crimini, contrabbandi, sequestri, quale reato vorrete imputare alle grandi banche, e naturalmente ai governanti della Regione, per questa follia, questa demenza politica, questo incredibile crimine di sottrarre seimila miliardi al bisogno, alla fame, alla disperazione, alla infelicità, al dolore, al diritto umano… diritto, signor presidente, diritto perdio… di un’infinità di siciliani che, dal giusto impiego di quel denaro, potrebbero finalmente trovare salvezza per le loro vite… e lasciare invece che quelle montagne di denaro putrefacciano nei sotterranei delle banche… E questa infame cosa che a sua volta provoca un allucinante fenomeno…

Pausa. Un grido ancora più alto:
Un allucinante fenomeno, che la vostra intelligenza di giudici e cittadini, ha sicuramente, fulmineamente colto, e cioè che, mentre per l’ente pubblico quella immobile montagna di denaro viene continuamente erosa e dilapidata dalla svalutazione, per le banche che invece continuamente, febbrilmente possono impiegare, prestare, investire, quelle montagne di denaro producono ininterrottamente altre piccole montagne di denaro, riproducendosi a guisa di conigli…

Silenzio, stanchezza.
Prendere dal tavolo il fascicolo processuale e ributtarlo sul tavolo.
Sguardo ai giudici, impercettibile, sorriso amaro.
Imminenza di terribile collera e tuttavia voce sommessa e triste in modo che tutti debbano allungare il collo per ascoltare:
E voi mi portate qui, schiacciato dalla tremenda accusa d’essere mafioso, quest’uomo il quale si comporta come tutti gli altri si comportano in questa nazione, come la società lo obbliga a comportarsi, e che ha solo la colpa d’essere ricco e cavaliere…

Levare lentamente il pugno in aria, vibrandolo, senza tuttavia profferire parole. E’ un gesto molto teatrale, quasi terrificante:
«Io voglio affidare questa mia arringa al cittadino, al popolo in nome del quale si fa giustizia, concludendola infine con una domanda. Se veramente ritenete che questo imputato abbia offeso la legge, se davvero egli è quel mostro, quel tiranno, quel demonio, quel mafioso indicato dall’accusa, volete spiegarmi perché mai tutta la gente si tolga il cappello dinnanzi a lui, e al suo cospetto stia sempre un po’ curva in un inchino, con un sorriso gratificato, e quando lui dice una battuta, tutti assentono gravemente, e quando scherza tutti ridono: non soltanto le persone a lui devote, servi, dipendenti, impiegati, amici, clienti, ma anche avversari, persino i nemici politici. Ditemi: se egli è davvero quell’infame mafioso, che ha predato denaro pubblico, e magari fatto ammazzare i suoi rivali e persecutori… può essere, può essere, chi dice di no…? Allora perché presidenti di regione, assessori, sindaci, deputati, talvolta anche prefetti, anche questori, persino alti magistrati, persino ministri, si accompagnano a lui nelle cerimonie ufficiali, inaugurano le sue grandi aziende, contraccambiano gli auguri di Pasqua? E quando egli cammina per strada, o sale le scale d’un pubblico palazzo, o parcheggia la macchina, anche il vigile urbano, l’usciere, il posteggiatore, anche l’umile sconosciuto galantuomo, che nulla può da lui pretendere o temere, saluta gentilmente; ossequi, comandi, buongiorno, baciolemani. Spiegatemi. Osate davvero pensare che tutti gli uomini di questa città siano così pusillanimi, miserabili e leccaculo, e tutti corrotti o disponibili alla corruzione, uomini di grande prestigio, altissimi funzionari che amministrano la vostra vita, magistrati ai quali affidate la vostra libertà e i vostri beni, uomini politici che vi rappresentano nel parlamento, ai quali avete delegato il compito di studiare le leggi, e che voi stessi avete eletto con il vostro voto. Davvero osate pensare questo? E come mai non avete il coraggio di affermarlo, e dinnanzi a loro vi cacate sotto, e continuate a vivere nel vostro buco come sorci, e continuate a votare sempre per gli stessi uomini politici…? Ecco, se volete veramente condannare quest’uomo, dovete avere prima il coraggio, anzi la dignità di venire avanti e spiegare – perdonate il termine, ma è perfetto – andare in giro per le strade e le piazze a scrivere sui muri: Io sono uno stronzo!

Ruffianeria finale, volgendosi alla corte:
Quest’ultima frase a voce stentorea, scandendo bene le sillabe, in modo che il concetto appaia esemplare e indimenticabile.
«Eccellentissimi, io vi chiedo perdono, forse voi appartenete a quella tale minoranza di imbecilli di questa nazione, i quali ancora lottano e credono che nella vita ogni uomo si possa affermare il suo reale merito, e che ci sia un ideale morale di vivere. In tale ipotesi, chiedendovi di assolvere il qui presente cavaliere, io vi chiedo sinceramente perdono!

Un inchino, la vecchia toga tenuta dolcemente fra due dita e così, adagio, depositata al centro dell’aula, sul pavimento.

A che serve essere vivi se non si ha il coraggio di lottare