Funerali di Stato: avanti c’è posto
da “I Siciliani”, settembre 1983
C’è un personaggio a Palermo, al cui apparire, negli ultimi tempi, decine di migliaia di persone in attesa da ore, prorompono in un dilagante applauso. E, fra gli applausi, anche le grida di sdegno, le lacrime, le invettive, occhi furenti e pugni protesi. Nessun grande attore di teatro, in alcuna grande arena italiana, può vantarsi d’essere accolto con un applauso così appassionato e commosso. Questo personaggio, che crediamo si chiami Calogero, oppure Benedetto, è un signore di mezza età, gentile, triste, decorosamente vestito, di amabili modi e voce sommessa, il quale esercita quella professione che Amleto, nel suo famoso monologo col povero Yorik, definiva “interratore di sogni” e che gli organici comunali più aridamente qualificano: operaio di seconda categoria, addetto alle pompe funebri. Insomma becchino! Orbene il signor Calogero (o Benedetto) esercita questa onorata e indispensabile professione a Palermo, ed è il becchino (absit iniuria) al quale vien data mansione, alla fine delle esequie, di provvedere al trasporto del feretro fino al carro funebre. E’ appunto il signor Calogero che, sull’ultimo gesto del prete con l’aspersorio, “Pacem aeternam dona eis Domine…”, spegne rapidamente le candele, fa un lievissimo gesto ai suoi aiutanti affinché sollevino la bara e, così sempre muovendosi con occhi tristi (facies professionale) e piccoli passi gentili e gesti amabili, guida il feretro fino al carro, precedendolo di un passo al fine che questo ultimo cammino sia sicuramente rapido e tuttavia garbato. E’ lui, il signor Calogero, che dunque appare sempre per primo sulla soglia della chiesa, una frazione di secondo prima dell’apparire della bara.
Il signor Calogero ha fatto il suo lavoro con garbo e pietosa precisione, per il giudice Terranova, il vicequestore Boris Giuliano, il giudice Costa, il presidente Mattarella, il capitano Basile, il generale Dalla Chiesa, il capitano D’Aleo e il giudice Chinnici, sempre con perfetta educazione, gentilmente tenendo a bada ministri, vedove, orfani, presidenti della Repubblica, generalissimi, prefetti di ferro, sottosegretari e deputati: ed ogni volta apparendo sulla soglia della grande chiesa palermitana contemporaneamente al feretro. E’ stato lui dunque a godersi quell’immenso applauso, ultimo saluto di dolore, amore, collera, paura, disperazione, di decine di migliaia di cittadini piangenti e urlanti. E’ già miracolo che non si sia lasciato finora mai sconvolgere dall’emozione (un lampo di pazzia dinnanzi al trionfo, perché no?) e non sia scoppiato in una terribile risata in faccia a tutta quella gente, o addirittura (nella pazzia c’è sempre un lampo di verità), lassù dall’alto della scalinata come da una ribalta, non abbia platealmente ringraziato con un inchino per quell’applauso e, volgendosi umilmente, come sogliono fare le comparse per indicare i veri protagonisti dello spettacolo, se non addirittura l’autore, non abbia indicato alla moltitudine la piccola folla politica al seguito del feretro. Come a dire: amici, voi applaudite me per questo ennesimo capolavoro? Ma io sono solo il becchino, il buttafuori, il siparista! In mezzo a quella piccola folla di potenti della terra, i veri padroni della nazione, c’è probabilmente anche quello che ha scritto il copione. Colui che ha fatto uccidere, oppure sa chi ha ucciso e fatto uccidere, e dunque gli ha dato il suo alto consenso.
E’ trascorso un anno dall’assassinio del generale Dalla Chiesa. Doveva essere l’anno del riscatto e della giustizia per i siciliani. Tutto è accaduto in peggio, la mafia è trionfante. Pio La Torre, segretario regionale del partito comunista, era stato ucciso perché aveva imposto al governo la legge antimafia sulle indagini bancarie che avrebbero dovuto consentire di identificare i grandi capitali mafiosi e i loro artefici. Dalla Chiesa venne assassinato perché preannunciò di avere identificato le connessioni fra gli intoccabili mafiosi della finanza e della politica. E dopo di lui, in questa specie di anno santo mafioso, un crescendo.
Il giudice Ciaccio Montalto massacrato perché era sul punto di spiccare i mandati di cattura contro alcuni invulnerabili padroni di banche (banche forse nemmeno siciliane, aguzzate il talento!) nelle quali vengono riciclati i miliardi della droga. Il capitano D’Aleo trucidato insieme ai carabinieri di scorta poiché prossimo alla identificazione degli invisibili manager mafiosi che, dai loro uffici di presidenza, dirigono l’esercito insanguinato della mafia alla conquista della società. Infine il giudice istruttore Rocco Chinnici, assassinato in quel modo barbaro, coinvolgendo nella strage decine di vittime innocenti, persino bambini: una ferocia senza precedenti nella pur ferocissima storia mafiosa, poiché anche il giudice Rocco Chinnici doveva assolutamente morire, e doveva morire perché anch’egli stava per strappare il velo agli inviolabili santuari, identificare (ecco il punto) non soltanto coloro i quali eseguono gli assassinii, e coloro che ne sono i mandanti, i grandi strateghi degli affari mafiosi, ma soprattutto coloro i quali, da imperscrutabili cattedre politiche, finanziarie, forse anche governative, assicurano invulnerabilità.
Ecco: l’assassinio di Chinnici ha un significato che, per esemplare crudeltà, scavalca tutti gli altri delitti precedenti. Significa infatti: tu magistrato coraggioso e onesto, fai pure il tuo lavoro, arresta, imprigiona, condanna coloro che uccidono, avvelenano il mondo con la droga, guadagnano migliaia di miliardi e, se ne sei capace, anche coloro che li comandano, i mandanti, gli strateghi, ma non andare al di là di un passo, non cercare di capire e conoscere coloro i quali li proteggono ed assicurano loro inviolabile potenza. Non un passo di più! C’è un funerale di Stato pronto per te!
Un anno dalla morte di Dalla Chiesa, e in questo anno che doveva essere quello della grande vendetta e giustizia, persino la regia del dopo assassinio è diventata perfetta. Uno spettacolo! Prima parte della recita i funerali, tutti i padroni del feudo Sicilia schierati attorno al feretro; il povero Pertini trascinato a Palermo, sempre più vecchio, sempre più stravolto, a piangere sulla spalla di vedove e orfani; la rovente omelia del cardinale Pappalardo che invoca il rugginoso gladio di Roma in soccorso della disperata Sagunto; la folla palermitana che piange e applaude quelle misere bare con le quali uomini coraggiosi scompaiono dalla vita; capi di governo, sindaci, ministri, sottosegretari, deputati, tutti in tetro ed elegante completo scuro, la faccia pallida di emozione e paura, tre squilli di attenti, la grande ovazione di addio, il summit in questura con i ministri degli Interni e Giustizia che riconfermano fiducia, precisano che comunque sarà dura e se ne vanno, l’opinione pubblica che trattiene il respiro, pensa, disperatamente pensa: forse stavolta qualcosa accadrà! Fine parte prima.
Parte seconda. Emerge notizia, non si sa da dove, mai ufficiale e tuttavia mai smentita, che anche stavolta la vittima stava raccogliendo le ultime prove per incriminare finalmente i grandi vecchi della mafia, gli stessi che Pio la Torre voleva disarmare con la sua legge, i medesimi che Dalla Chiesa sperava di smascherare, che il capitano D’Aleo e il giudice Ciaccio Montalto erano ad un passo dal riconoscere, che Chinnici stava per catturare. In questa notizia, che pur sembra un grido di speranza della giustizia c’è una maligna ironia! Come a dire: attenti, ecco quello che succede a colui (generale, magistrato o prefetto che sia) il quale osa oltrepassare quella soglia. Il messaggio è lanciato alla perfezione, chi ha da capire capisce. Fine parte seconda!
Parte terza, il colpo di genio! Notizia per la quale sono stati identificati i nomi degli assassini, stavolta i nomi si fanno, si possono fare, tutti protagonisti della mafia vincente e perdente, personaggi già braccati per una trentina di omicidi a testa, perseguiti dalla ipotesi di una decina di ergastoli ciascuno. Uno più, uno meno! Greco, Inzerillo, Bontade, Spatola, famiglie immense di figli, fratelli, cugini, nipoti, la metà sono morti, i sopravvissuti fanno feste di cresima a New York, alla gente queste storie piacciono, i grandi rotocalchi fanno servizi speciali. E perché, anche quelli di Dallas non sono canaglie, e tuttavia venti milioni di telespettatori non li guardano a bocca aperta?
Intanto passano settimane e mesi, c’è la crisi della lira, le ferie selvagge, il nuovo campionato di calcio, Zico, Luvanor, Platini, il ragioniere Cova fa impazzire di orgoglio razziale gli italiani, il vecchio Mennea li rende quasi contemporaneamente infelici, cominciano le grandi battaglie sindacali d’autunno dove ogni povero cristo, l’avvocato Agnelli e il manovale di Solarino, ha da difendere il suo peculio, l’estate finisce, piogge, alluvioni, si riaprono i teatri, ci sono stati altri cinquanta omicidi a Palermo, a Napoli invece settanta, Biagi, Bocca e Baget Bozzo hanno scritto altri venti articoli sulla erudita differenza fra mafia e camorra… chi era Rocco Chinnici?
Gli arabi supertestimoni e informatori dei servizi segreti si sono rivelati venditori ambulanti di tappeti e collanine, altri venti o trenta giudici coraggiosi hanno garbatamente pensato che vivere certamente è sempre meglio che fare insicuramente giustizia, oltretutto si fa più carriera, solo qualcuno disperatamente resiste nella sua coscienza di uomo. Il signor Calogero è là, con il suo malinconico e gentile sorriso: ma voi perché applaudite me? io sono solo il becchino!