I dieci più potenti della Sicilia
da “I Siciliani”, luglio 1983
Chi sono le dieci persone più potenti della Sicilia? La domanda è affascinante! Chi sono coloro che, per ragione della loro forza, possono veramente, profondamente influire sul destino dei siciliani e modificarlo nel bene e nel male, cambiare la faccia alle città e ai territori, cambiare la sorte di decine e centinaia di migliaia di persone, stravolgere il corso della loro vita senza che nemmeno essi se ne rendano conto, determinare la loro povertà o agiatezza, allegria o infelicità, consentire loro di continuare a vivere nel posto dove sono nati oppure costringerli a cercare campo e sopravvivenza in altri luoghi della terra? Chi sono in Sicilia le dieci persone che, più di ogni altra, possono tutto questo? La domanda è magnifica! Vale la pena di fare di tutto per rispondere!
Quando si parla di potere, quasi sempre si intende rozzamente qualcosa di nemico, più forte di te, implacabilmente più forte, e che può infliggerti prepotenza e dolore, e al quale tu non trovi modo di scampare. E nella realtà quasi sempre è così! Iniziando tuttavia questa nostra indagine (che non è inchiesta, e nemmeno studio, ma soprattutto scoperta), non vogliamo dare alcuna definizione morale del potere, ma semplicemente definire cosa sia e da cosa composta la facoltà umana concessa a poche persone di comandare su tutte le altre e quindi sulla società. Nel bene e nel male, ripetiamo. Tanto per esser perfettamente chiari, Luciano Liggio del quale si dice che abbia fatto assassinare una cinquantina di individui e che avesse (o abbia) la facoltà di influire su tutti i grandi avvenimenti mafiosi, è un uomo che ha sterminato potere. Lo ha usato maleficamente. Anche il cardinale Pappalardo, il quale con un suo sermone può sconvolgere milioni di fedeli e far tremare ministri dello Stato e costringere la folla mafiosa a ritrarsi per qualche tempo nel suo guscio, ha potere altrettanto sterminato. Lo ha usato finora beneficamente. Al di là del criterio morale, tutti e due, Luciano Liggio e il cardinale Pappalardo, hanno potere!
Chi sono dunque i dieci siciliani più potenti? La domanda è bella e inquietante! Cerchiamo dunque di fare il discorso più logico possibile, e quindi anzitutto di capire cosa effettivamente sia la potenza. Io ritengo che le sue componenti essenziali siano cinque: il denaro, la pubblica autorità, la capacità politica, la popolarità e il talento. Ho raccolto cinque piccole storie esemplari.
Accadde in una corte di assise non molto tempo fa. Si celebrava un processo per i delitti di assassinio continuato e strage. Dentro il gabbione c’erano almeno una ventina di criminali, ognuno dei quali, secondo l’accusa, aveva sulla coscienza cinque o sei omicidi. Il processo sembrava una tempesta. Il procuratore della repubblica era temerario e spietato, ogni volta che parlava era come se afferrasse per il bavero gli imputati e li sbattesse contro i ferri del gabbione. La sua passione per la giustizia talvolta diventava violenza. Ad un certo momento, in mezzo a quella piccola folla di uomini feroci che avevano ucciso tante volte senza battere ciglio e che, senza un tremore, lottavano per evitare l’ergastolo e che tuttavia, dinnanzi alla valanga di parole dure, taglienti del pubblico ministero, parevano talvolta smarrirsi e sbandare, in mezzo a quella piccola folla si alzò un grande mafioso, con il vestito nero, la cravatta nera, i capelli grigi, la grande testa di legno squadrata a colpi d’ascia, e levò il dito diritto come un’arma contro il pubblico ministero e disse: «Signor procuratore ora lei è là, su quello scanno, con il mantello nero, e sembra il padreterno, e io sono chiuso dentro questa gabbia, in mezzo a uomini impauriti, e se anche voglio andare a gabinetto debbo chiedere umilmente permesso a un carabiniere. Però, con mezza parola io posso far dare un appalto pubblico di cento miliardi a una impresa invece che ad un’altra, posso far fallire una banca, trovare o levare lavoro e guadagno per mille o diecimila persone. E lei no! Lei, signor procuratore, ha al suo comando battaglioni di carabinieri armati fino ai denti, mitragliatrici e autoblindo, e dietro di sé anche la fotografia del capo dello Stato e il Crocifisso, ed io invece le catene ai polsi e solo queste gracili mani per difendermi. Però, con un semplice gesto, o anche solo uno sguardo, io posso fare uccidere dieci o cento persone in qualsiasi parte di questa nazione, anche nel più profondo delle carceri, posso amministrare la vita e la morte di chi dico io. E lei no! Signor procuratore, qualunque cosa accada io sono più potente di lei. Quando parla, non se lo scordi mai!».
Un cavaliere del lavoro, al giudice che lo inquisiva per sospette trame mafiose e per una colossale frode fiscale, disse invece: «Signor giudice, come lei ben dice, io sono mostruosamente ricco, e la mia ricchezza è potenza, e la mia potenza sta devastando la società. Lei non possiede niente di tutto questo. E tuttavia, io che possiedo tutto, sono qui in piedi e impaurito dinnanzi a lei, attento a non sbagliare una sola parola che non possa suonare di rispetto per lei, attento a consentire, a negare, a sorridere, ad apparire devoto e sottomesso. E lei, che non possiede niente, assolutamente niente o quasi niente, sta dinnanzi a me come un padrone per giudicarmi, e secondo un suo malumore o inganno mentale… con tutto il rispetto può accadere… può offendermi con le sue domande, impormi di parlare delle cose sulle quali invece vorrei tacere, e viceversa ordinarmi il silenzio quando invece io vorrei parlare; e infine, secondo un suo terribile sbaglio o rancore personale, infliggermi umiliazione, danno o infelicità! Chi è più potente di noi due?».
Un giornalista ironico e intelligente, a chi gli chiedeva quale idea o stima egli avesse della sua professione, spiegò: «Io amo la mia professione come si può amare carnalmente una donna splendida e un po’ bagascia che ti tradisce con tutti e di cui però non riesci a fare a meno. Non c’è sentimento, è proprio un fatto di sesso. In questa società comanda soprattutto chi ha la possibilità di convincere. Convincere a fare le cose: acquistare un’auto invece di un’altra, un vestito, un cibo, un profumo, fumare o non fumare, votare per un partito, comperare e leggere quei libri. Comanda soprattutto chi ha la capacità di convincere le persone ad avere quei tali pensieri sul mondo e quelle tali idee sulla vita. In questa società il padrone è colui il quale ha nelle mani i mass media, chi possiede o può utilizzare gli strumenti dell’informazione, la televisione, la radio, i giornali, poiché tu racconti una cosa e cinquantamila, cinquecentomila o cinque milioni di persone ti ascoltano, e alla fine tu avrai cominciato a modificare i pensieri di costoro, e così modificando i pensieri della gente, giorno dopo giorno, mese dopo mese, tu vai creando la pubblica opinione la quale rimugina, si commuove, s’incazza, si ribella, modifica se stessa e fatalmente modifica la società entro la quale vive. Nel meglio o nel peggio!».
Un importante uomo politico meridionale, di quelli che reggono i dicasteri, che hanno morbida mano nel governare la cosa pubblica, che hanno astuzia, garbo, intelligenza, sufficiente cinismo e ironica crudeltà come si conviene ai padroni, soavemente spiegò quali fossero le ragioni della sua grande forza: «La forza consiste anzitutto nella saggezza con cui ogni uomo riesce ad amministrare i suoi rapporti. Voglio dire che la vera forza consiste soprattutto nel numero delle persone che ti sono devote, e quindi si fonda sull’amicizia, la riconoscenza, la gentilezza… avere cioè beneficato una infinità di persone che perciò ti saranno sempre fedeli… uomini anche potenti e ricchi, banchieri, deputati, artisti, ma anche poveri, analfabeti, ignoranti, malati e persino criminali, poiché beneficare uomini criminali ed avere la loro devozione non è immorale: immorale è considerare un uomo povero o criminale al livello della bestia. Ecco, io ho un’anima generosa che si lascia sedurre, che si concede a tutti, chiedendo in cambio piccoli prezzi di affetto e devozione. Questa è la mia grande forza: io ho un’anima puttana!».
Infine un grande scrittore del Sud, che ha un sovrano concetto del talento e quindi di se stesso, e che talora maestosamente si concede per qualche minuto alla curiosità degli altri, ai convenuti di un salotto intellettuale dove si dibatteva il tema appunto del genio, disse: «Alla fine nella società prevale sempre il talento, cioè l’intelligenza pura, cioè il genio. Il genio scansa persino le malattie, allontana da sé persino la morte, il genio ama le donne provando un piacere infinitamente maggiore di qualsiasi altro, e se scoppia una rivoluzione riesce sempre infallibilmente a stare insieme ai trionfanti vincitori. Quelli che finiscono dinnanzi a un plotone d’esecuzione sono finti geni, sono imbonitori, sono minchioni. Il genio è anche intuizione della storia, il genio è anche saper prevedere chi vincerà le battaglie decisive e, mentre i fumi della lotta ancora gravano sul campo, farsi trovare già seduto al tavolo di chi detta le condizioni di pace. Un libro, un solo libro scritto nel momento giusto, con una giusta storia, può modificare il corso politico di una nazione!». Naturalmente stava parlando del suo genio. A chi gli chiedeva quale suo libro avesse modificato il destino politico della nazione, egli rispose con un enigmatico sorriso.
Ecco dunque le componenti essenziali del potere: il denaro, l’autorità dello Stato, la forza politica, la popolarità e il talento. Naturalmente ognuna di queste componenti non ha eguale forza e capacità di influenza sulla società. Tanto più vale questo principio e bisogna essere attenti nella valutazione, in quanto stiamo parlando di una società, quella siciliana, profondamente diversa da qualsiasi altra e nella quale l’animo umano è condizionato da suggestioni, bisogni, speranze, dolori, sogni completamente diversi che in qualsiasi altra regione d’Europa. E’ evidente infatti che, in una società di tutti ricchi, il denaro è disponibile per tutti e quindi la sua forza di convinzione è mediocre. In una società di tutti ricchi, chi volesse trovare un killer per fare assassinare un suo nemico, non può trovarlo con cinque o dieci milioni, ma dovrà pagare un miliardo. In una società nella quale i poveri sono la maggioranza, e centinaia di migliaia di esseri umani debbono lottare ogni giorno per la sopravvivenza, trovare un uomo che, per denaro, cioè per guadagnarsi tale sopravvivenza, sia disposto a uccidere un altro uomo (magari mai visto e mai conosciuto) è infinitamente più facile. Orribilmente più facile. In una società povera il valore del denaro cresce in misura inversamente proporzionale al numero dei poveri ed al grado della loro miseria, alla vastità del loro bisogno, alla impossibilità di risolvere in altro modo il problema della esistenza. In tal caso il denaro può tutto: pagare efficienti killer per eliminare avversari e concorrenti, acquistare amicizia e complicità della sordida folla dei politicanti minori, creare posti di lavoro e guadagnare quindi la devozione di migliaia di cittadini, gestire trionfalmente una squadra di calcio e conquistare l’amore di decine di migliaia di individui. Non è vero che le banche siano il simbolo del potere nei paesi più progrediti dell’Occidente. Le banche sono rappresentazione ed esercizio del potere, soprattutto nei paesi poveri dove infelicità o contentezza di un uomo o di una famiglia dipendono da piccole somme di denaro. Non a caso la Sicilia è la regione italiana che conta più banche di qualsiasi altra. Ebbene, se valutiamo in 100 la cifra totale del potere, cioè la somma di tutte le sue componenti, allora dobbiamo dare al denaro almeno una quota percentuale di 30.
L’autorità, quella legittima, quella che proviene dalla rappresentanza dello Stato. Molto più gracile del denaro. Siamo in un territorio della nazione dove lo Stato per suo distacco mentale, lontananza, paura, strafottenza, non è riuscito mai ad imporre una sua certezza e presenza. Assente lo Stato, e quindi la forza e certezza della legge, anche la giustizia è stata incerta, talvolta sgomenta, spesso abbandonata al suo destino di impopolarità. Tradita dallo Stato, accerchiata da forze oscure e prevalenti, la violenza e l’intimidazione criminale, il terrore e quindi la diserzione del testimone, l’adescamento dei politici, la giustizia ha spesso, a sua volta, tradito lo Stato, si è lasciata corrompere, o vincere, o ricacciare inerme nel buio dei suoi vecchi palazzi. E tuttavia forse proprio per questo, per questo vivere dentro una società drammatica e complessa, l’autorità può esercitare una profonda influenza sulla evoluzione siciliana. Un magistrato imbelle, impaurito, disponibile alla corruzione o alla intimidazione politica, può stendere una inviolabile cappa nera su infami e giganteschi eventi siciliani, far sparire prove essenziali su un efferato delitto, ritardare indagini, deformare le conclusioni, consentire dilapidazioni gigantesche di pubblico denaro. E viceversa un giudice onesto, coraggioso, cosciente (l’esempio viene da quello che accade in questi mesi a Palermo) può fermare la mano degli assassini, paralizzare il mercato della droga, vanificare un appalto truffaldino di cento miliardi, ricacciare nelle tane i burocrati e i politici corrotti. Nell’un caso e nell’altro un giudice può dunque profondamente influire sulla devastazione o sulla evoluzione della società siciliana. Rispetto a quel 100 del potere totale, la componente-autorità vale almeno dieci. Non è molto!
La forza politica! In una grande e cosciente democrazia l’uomo politico sa di dover rendere conto alla coscienza severa del cittadino e al suo giudizio morale. In Italia questo non accade; in Italia i partiti sono i soli depositari ed usufruitori del concetto democratico: essi stabiliscono le linee politiche di governo, formano le liste dei candidati, amministrano la spartizione del potere. La grande forza di un uomo politico, a qualsiasi livello, non è il vigore trascinante del suo pensiero, la intelligenza delle sue proposte, la passione del suo pensiero pubblico, ma semplicemente il suo privato, cioè la consistenza degli infiniti rapporti privati che egli mantiene con i cittadini, gli enti, le associazioni, i gruppi, le camarille, le aziende, le imprese, gli amici, i clienti, i segretari di sezione, gli ospedali, le scuole. La forza di un uomo politico, perciò, non dipende mai (quasi mai) dalla pubblica riconoscenza per la vastità delle sue proposte ideali, ma soprattutto dalla capacità, astuzia e tempestività con cui ha saputo dare privatamente ai cittadini elettori quello ch’essi gli chiedevano. Un uomo politico che abbia trentamila o trecentomila voti di preferenza, può ben dire che quei voti sono suoi, e basta. Non a caso, trasmigrando in un altro partito, egli se li porta appresso. E appunto per questo, per la sua indipendenza dalla coscienza popolare, l’uomo politico italiano è più forte che in qualsiasi altra democrazia. Tanto più forte in Sicilia dove, fatta eccezione per i due furenti deliri, prima nero e poi rosso di Catania, le posizioni politiche sembrano cristallizzate. La forza privata, cioè personale dà all’uomo politico siciliano una grande forza pubblica, che a sua volta ridiventa possibilità di influire profondamente su ogni interesse privato che abbia una connessione con la cosa pubblica. Sembra un concetto astruso e invece è estremamente semplice. Su un valore 100 del potere assoluto, la forza politica vale trenta. Alla pari con il denaro.
La popolarità? Più esattamente la possibilità di intervenire sulla pubblica opinione, formandola e modificandola, e così formando e modificando gli eventi. Questa è una componente enigmatica. Nella realtà la Sicilia è una delle regioni europee di più rozze tradizioni nel campo della informazione: si comperano meno giornali che altrove, si leggono meno libri. Un antico e amaro rifiuto culturale determinato in massima parte dalla piaga dell’analfabetismo, dalla inalterata povertà della popolazione, dalla lontananza delle grandi forze culturali. E tuttavia, forse proprio per questo distacco popolare, i pochi strumenti di informazione che sono riusciti a consolidarsi sul territorio dell’isola e se lo sono spartito (a ognuno il proprio inviolabile feudo) hanno una determinante forza di persuasione. Non stiamo parlando dei giornalisti, che possono adoperare questa forza solo a livello di piccoli problemi, ma dei padroni degli strumenti di informazione. Certo ci sono lotte di singoli o di gruppi per rivendicare libertà assoluta di informazione e indipendenza critica, ma la regola massima è sempre quella, e cioè che le macchine della informazione appartengono al padrone, e quindi anche pensieri e idee di coloro che usano le macchine per informare la società, debbono essere quelle dei padroni. Il cui potere, ingigantito dalla impossibilità di opposizione, può garbatamente amministrare anche la fortuna degli altri, agevolare o contrastare le grandi potenze economiche, ostacolare o favorire gli accumuli di ricchezze, determinare la destinazione del denaro pubblico, la crescita o la decadenza di un uomo politico, la sonnolenza o la ribellione di un grande organo giudiziario. A volte basta omettere una sola notizia e un impero finanziario si accresce di dieci miliardi; o un malefico personaggio che dovrebbe scomparire resta sull’onda; o uno scandalo che sta per scoppiare viene risucchiato al fondo.
C’è stata una rivoluzione in questo campo. L’avvento delle televisioni private, moltiplicando gli strumenti di informazione, pareva avesse stravolto gli antichi assetti di potere, determinando una caotica ma febbrile evoluzione della conoscenza popolare; ma lo strumento è dapprima decaduto a semplice e spesso squallido spettacolo, e infine, con il sopraggiungere dei net-work è stato anch’esso consegnato nelle mani dei tradizionali padroni dell’informazione. I quali, a loro volta, sentono sul collo il fiato greve del grande capitale settentrionale. Quella che poteva essere una grande rivoluzione tecnica e civile, cioè una autentica presa di potere da parte di un giornalismo inteso nel senso più alto e morale del termine, si è risolta in una ulteriore colonizzazione culturale. Nella composizione del potere, rispetto al valore assoluto 100, questo elemento poteva valere anche 50. Non vale più di 15.
Il talento. L’intelligenza. Il genio! Non è rimasto più di un residuo 10 per cento. In Sicilia, ai fini del potere, non crediamo che valga molto di più, soprattutto se esso non si adatta, anzi se non coincide con qualcuna delle altre componenti di potere. Venti anni fa Leonardo Sciascia scrisse “Il giorno della civetta” e modificò il concetto di mafia nella mente degli italiani, soprattutto modificò il rapporto fra la coscienza degli italiani ed altre forme di potere fin’allora ritenute inviolabili, il grande clero, la giustizia, gli uomini di governo. Il talento fece un grido e tutte le altre cose che sembravano di ferro, improvvisamente si incrinarono. Ma non è stato scritto più alcun altro “Giorno della civetta”. Nemmeno da Sciascia.