Sciascia Alien
da “I Siciliani”, maggio 1983
I siciliani più famosi degli ultimi trenta-quarant’anni sono stati il bandito Giuliano, l’onorevole Mario Scelba, il principe Tomasi di Lampedusa, il premio Nobel Quasimodo, l’arbitro Lo Bello, lo scrittore Leonardo Sciascia e Pippo Baudo. Non mettiamo nel conto Elio Vittorini e Vitaliano Brancati, i quali furono grandi ma non certo altrettanto famosi. A seconda dei punti di vista abbiamo dato molto, o molto poco, alla civiltà italiana.
Nel momento storico attuale i siciliani sono in crisi. Il bandito Giuliano è oramai soltanto un riferimento antologico della storia mafiosa, il senatore Mario Scelba (l’uomo il quale esemplificò come la democrazia si possa difendere con metodi tirannici) forse il vero fondatore del regime democristiano, affonda nelle brume della lontananza con tutti i suoi ricordi, compresa l’ultima notte di Salvatore Giuliano. Il principe Tomasi di Lampedusa viene soltanto citato per il film di Luchino Visconti e per il famoso dialogo fra il Gattopardo e il piemontese Chevalley sul mortale privilegio d’essere siciliani. Salvatore Quasimodo nessuno lo conobbe veramente mai in Sicilia, è sui libri di testo, requiescat! L’arbitro Lo Bello amministra in Parlamento il suo onorevole tramonto, non diventerà mai sottosegretario o ministro, è ingrassato, non rassomiglia più a Clark Gable, è certamente uno dei democristiani più preparati e garbati e forse per questo, un giorno o l’altro, il suo partito gli farà improvvisamente le scarpe. Sic transit.
Restano Pippo Baudo e Leonardo Sciascia, l’uno delegato ad ammansire ogni domenica pomeriggio disperazioni, malumori e ribellioni degli italiani; l’altro che continua gelidamente a spiegare la necessità di una grande rivoluzione e la contemporanea impossibilità di realizzarla.
Probabilmente non è esistito mai, almeno nella cultura, un siciliano che fosse così profondamente siciliano come Sciascia, nella antichissima saggezza, tremila anni di dolori, paure, violenze patite o inferte, solitudine, e quindi il genio che nasce appunto dalla storia e dalla solitudine, e questo genio unito alla saggezza, alla pazienza, a un costante onore della morte. E tuttavia nella cultura siciliana non esiste un siciliano capace di guardare ai fatti umani con altrettanto distacco intellettuale, con un cuore così gelido, il rifiuto definitivo delle passioni umane (che non siano avidità e potenza) quali cause degli eventi. Sciascia siciliano come nessun altro, e tuttavia completamente diverso da ogni altro siciliano. Alien Sciascia.
Dieci pensieri, dieci riflessioni per capire chi è veramente, e perché, questo alien Sciascia.
1) In compagnia dei morti: Sciascia è il più grande scrittore italiano, certamente l’unico a livello europeo. Una ideale graduatoria dei grandi narratori italiani potrebbe essere la seguente: Verga, Pirandello, Manzoni, Sciascia, Moravia, Tomasi di Lampedusa, Italo Svevo, Brancati, Vittorini, Marotta. Certo una graduatoria siffatta può essere infinitamente discussa: mancano quasi del tutto gli autori moderni, come se la cultura del nostro tempo fosse scaduta definitivamente a livelli miserabili; e i siciliani sono davvero tanti e sicuramente troppi, come se l’ispirazione poetica, e dunque politica e sociale, da cento anni divampasse solamente al Sud. Ma in verità chi sono i narratori italiani moderni che, al di fuori della retorica politica, o della esasperazione commerciale, cioè senza l’avallo dei grandi partiti o l’amicizia dei grandi editori, ma semplicemente per privilegio del loro talento, possano essere considerati oggi, in Italia, grandi narratori? Non a caso, in quei primi dieci, fatta esclusione di Moravia e Sciascia, tutti gli altri sono morti, cioè protagonisti di una cultura che non ci appartiene più.
2) Amante di Medea: Sciascia sarebbe stato il più grande giornalista vivente poiché, come nessun altro, possiede quella che dovrebbe essere la qualità essenziale del giornalista: la capacità di sintesi. Egli osserva l’evento da ogni parte, Sciascia sempre fermo con i piccoli occhi aguzzi puntati, e l’evento che si muove, corre, torna, si capovolge, rigira, appiattisce, s’aguzza, modifica, rinsecchisce, esplode, e Sciascia sempre fermo, lo vede da ogni parte, alla fine è in condizione di descriverlo perfettamente. Essendo rimasto immobile al suo posto egli ha potuto misurarne la velocità di evoluzione e, a mano a mano che esso si spostava, osservarlo nelle sue diverse esposizioni, e quindi perfettamente conoscerlo a differenza di coloro che, per passione o umano interesse, viaggiano insieme all’avvenimento o dentro l’evento stesso, e quindi conoscono soltanto e sempre un aspetto. Il loro. Laddove gli altri bruciano, Sciascia rimane gelido: né dolore, pietà, commozione possono spostare di un’unghia il suo pensiero sull’evento umano. Nell’eterna lotta fra la ragione e il sentimento egli è stato immobile sempre dalla parte della prima. La sua grandezza è anche il suo limite. Sciascia è il gelido, immobile cervello elettronico: dall’altra parte una ingannevole gozzoviglia di lacrime, sudore, sangue, Amleto, Ecuba, Otello, Giulietta, Odisseus, Karamazoff, Bovary… Un’idea bizzarra, fantastica: immaginare Sciascia amante di Medea!
3) Prolegomeni sulla mafia: Sciascia è un genio e viene definito mafiologo.
Sciascia ha scritto libri di filosofia politica che hanno anticipato di anni le tragedie della politica italiana e i melensi speaker televisivi continuano a dire: «E’ qui con noi il mafiologo Sciascia!». E Sciascia allarga la sua strana faccia da batrace in un sorriso di ironica condiscendenza. In effetti Sciascia sa tutto della mafia, ma come Kant sapeva tutto dei prolegomeni. Lui non ha fatto mai racconto della mafia, né interpretazione, ma semplicemente la filosofia della mafia. Le ha dato una patente di dignità intellettuale, ha costretto statisti, politologi, governanti a trattare di mafia come uno degli argomenti fondamentali del nostro tempo.
Sciascia, se non fosse stato, per avventura umana e scelta civile, il più spietato e lucido avversario della mafia, sarebbe stato il piú geniale dei mafiosi. La ipotetica repubblica mafiosa di domani avrebbe, in tutte le sue piazze, statue di Sciascia come la becera repubblica di oggi ostenta indegnamente quelle di Garibaldi. La vita può fare di questi giochi per i quali naturalmente non esiste la prova del contrario. Dipende dal luogo dove si nasce, dal padre che ti genera, dall’ambiente che ti alleva, dai dolori e dalle speranze che accumuli. Qualsiasi essere vivente instrada le sue capacità intellettuali nella direzione in cui il suo personale contesto lo conduce. L’uomo Cutolo, se fosse nato da una famiglia di contadini rivoluzionari del Sudamerica, sarebbe stato probabilmente Simon Bolivar. Naturalmente non è una regola assoluta. Naturalmente esiste per ogni vivente uno spazio di libertà dentro il quale l’anima può riuscire a sopraffare tutte le condizioni, gli adescamenti, le necessità dell’ambiente. Ma accade forse solo ai santi.
4) A ciascuno il suo ruolo: Sciascia è convinto che la mafia sia un sottile gioco di cervello. La condizione umana non è influente: la povertà, l’ignoranza, il dolore non entrano nel gioco. Il mafioso è tale per composizione storica di elementi: psicologia, tradizioni, contrapposizioni d’interesse. In tutti i libri di Sciascia la violenza degli uomini è mossa soltanto dal fatto di essere già all’inizio personaggi definiti. In nessuno di tali personaggi, dietro la violenza, ci sono mai la sofferenza sociale dell’uomo, il dolore dell’individuo, la sua disperazione di potere altrimenti modificare il destino, e cioè gli antichi ed immutati dolori del Sud: miseria, solitudine, ignoranza.
I personaggi entrano in scena e sono già disegnati, con tutti i loro abiti indosso, ognuno deve recitare la sua parte già scritta, senza mai spiegare il perché, essi sono il buono, il cattivo, l’uccisore, il testimone, la vittima, senza mai dare spiegazione, com’è accaduto: per quale dolore, ribellione o inganno quel tale sia nel ruolo di assassino e l’altro in quello della vittima. Può accadere che ci sia thrilling, poiché Sciascia ha anche questa geniale perfidia letteraria di utilizzare il mistero, per cui tu non capisci ancora chi sia il giusto o l’ingiusto, l’assassino o la vittima, ma al momento in cui il thrilling si risolve, tu ti rendi conto che quel giusto era giusto fin dall’inizio, e così anche l’ingiusto, l’assassino e la vittima, sei tu mediocre a non averlo capito prima.
E’ come se Sciascia entrasse nel teatro in cui si recita l’essere siciliani a spettacolo già cominciato e volesse interpretare i protagonisti solo per quello che dicono. Il resto, il passato, il già detto e già avvenuto non influisce. E’ ombra. L’intuizione diventa più difficile. Il gioco intellettuale più affascinante.
5) Universo senza donne: Sciascia non narra mai di grandi passioni sentimentali. Nel suo universo la donna, come costante essenziale di tutte le altre vicende umane, non esiste.
Protagonisti sono i capipopolo e gli assassini, i cardinali, i ruffiani, i colonnelli dei carabinieri, i ministri, i confidenti di polizia, i teologi, i viceré, gli accattoni: la donna mai!
In quello che probabilmente resta il suo libro esemplare, per perfezione narrativa e nitidezza di significati morali, “Il giorno della civetta”, unico personaggio femminile presente in tutto l’arco del racconto è la vedova Nicolosi, che praticamente costituisce il perno dialettico dell’intera vicenda: il marito è stato assassinato per un delitto di mafia, e tuttavia qualcuno vuole dimostrare com’egli sia stato semplicemente trucidato da un misterioso amante della donna. C’è, per un attimo, un presentimento da tragedia greca. Ma appena la vedova Nicolosi fa un passo avanti (che diamine, l’uomo che hanno ucciso era il suo uomo, tutto dovrebbe gridare vendetta, violenza, passione in lei) Sciascia la ricaccia subito gelidamente indietro. E’ gelido anche nel descriverla, quasi con l’involontaria ironia di un verbale di carabinieri: «Era bellina la vedova; castana di capelli e nerissimi gli occhi, il volto delicato e sereno ma nelle labbra il vagare di un sorriso malizioso. Non era timida. Parlava un dialetto comprensibile. Qualche volta riusciva a trovare la parola italiana, o con una frase in dialetto spiegava il termine dialettale!».
Tutta la storia d’amore di questa donna, giovane, bella, alla quale hanno letteralmente strappato il marito per farne pupo da zucchero (un dolce tipico siciliano che si regala ai bambini nel giorno dei Morti), tutta la passione, i fremiti, il desiderio tradito, il dolore, la violenza sensuale, i sogni spezzati, l’essere donna di questa vedova, tutto il suo grido di femminilità violentata, si racchiude in questo placido periodo, allorché ella racconta il suo rapporto con l’ucciso:
«Egli ha conosciuto me ad un matrimonio: un mio parente sposava una del suo paese, io sono andata al matrimonio con mio fratello. Lui mi ha vista e quando quel mio parente è tornato dal viaggio di nozze, lui gli ha dato incarico di venire da mio padre per chiedermi in moglie. Dice “è un buon giovane, ha un mestiere d’oro”, e io dico che non so che faccia ha, che prima voglio conoscerlo. E’ venuto una domenica, ha parlato poco, per tutto il tempo mi ha guardata come fosse in incantamento. Come gli avessi fatto una fattura, diceva quel mio parente. Per scherzare, si capisce. Cosi mi sono persuasa a sposarlo!». Nelle donne di Sciascia non ci sono proiezioni d’ombre e trasalimenti di Ecuba, Fedra, Medea, nessuna femminilità tragica e furente, nessuna donna come madre della vita. Il rapporto sentimentale fra uomo e donna è sempre grigio, usuale, senza misteri. Sciascia probabilmente non ritiene la donna pari all’uomo, né come individuo, né dentro la storia. Una aggregazione, una appendice, un elemento di spettacolo. Le donne: mogli, amanti, duchesse e puttane, vengono sulla scena a recitare la loro parte e basta. Sono ininfluenti, emettono suoni, non comunicano sentimenti. Comparse che servono semmai alla battuta del maschio, alla sua riflessione; al più sono comprimarie utili al dialogo, in cui tuttavia gli uomini protagonisti formulano infine il pensiero essenziale, l’unico degno di rispetto.
6) Individui nella storia: Sciascia non ha un’idea politica precisa. Quasi certamente è convinto che la politica sia un mezzo che la società offre all’uomo per realizzarsi come individuo, non certo uno strumento della società per risolvere i suoi problemi. A giudicare dai pensieri e dagli atteggiamenti dei suoi personaggi (quasi sempre i pensieri dei personaggi coincidono inconsciamente con quelli dell’autore) Sciascia è una specie di liberale di sinistra, politicamente fermo alla Sicilia del dopo Crispi, nella quale i grandi problemi della società potevano essere risolti dal superiore talento di alcuni uomini, mai dalla trascinante violenza o dalla ribellione e disperazione delle masse. Queste grandi forze possono essere utilizzate storicamente da alcuni individui, mai essere protagoniste. Anche la politica dunque non è uno scontro dei bisogni popolari dell’umanità, che non ha perciò cicli politici in evoluzione, l’uno diverso dall’altro e determinati da nuove, profonde necessità storiche, da un eterno gioco di poche intelligenze opposte che, di volta in volta, interpretano situazioni storiche e se ne avvalgono. Sciascia scruta continuamente nel passato, libri, leggende, vicende umane, nella certezza di trovare un’ineluttabile identificazione tra passato e presente, e così dimostrare come quello che accadde un tempo, continui ad accadere anche oggi e che i pugnalatori di Palermo furono come i brigatisti di oggi e viceversa. Una somiglianza siffatta non può certo essere rinvenuta nella comparazione dei grandi eventi collettivi, ma nel raffronto fra storie di individui. Il gioco è più sottile, esige un’infinita pazienza poiché sono personaggi minimi dai quali si vogliono trarre grandi verità, bisogna riconoscerli, provocarli, ascoltarli, interrogarli infinite volte. C’è un motivo di ambiguità e di fascino in tutto questo. Chi cerca nella storia interpreta e racconta fatti e personaggi che gli altri conoscono già e di cui si cerca semmai soltanto di offrire una diversa valutazione. Sciascia cerca esseri e vicende che solo lui sa e conosce. Non può essere smentito. Ecco perché Sciascia appare grande, poiché è quasi sempre incontrovertibile.
7) Pirandello mente: Sciascia non conosce quasi mai i fatti, le cose, gli uomini, direttamente, ma li apprende per infinite vie, magari semplicemente attraverso la lettura dei giornali e l’ascolto della televisione. Tuttavia ha una miracolosa facoltà, una specie di magico ordine mentale, per cui egli allinea fatti, cose, eventi, battute, personaggi sul suo tavolo e comincia con infinita pazienza a identificarli e collegarli. Senza mai avere visto alcuno, o parlato con chicchessia, né chiesto opinioni, ricostruisce la sua verità. E alla fine la ritiene l’unica possibile. Anche gli altri alla fine se ne convincono. Tutto questo è molto singolare. E’ come se egli osservasse gli esseri umani in vitro, anni dopo anni, con l’occhio incollato a un suo microscopio, valutandone voci, gesti, sembianze, saggezza, follia. Alla fine li mette in bell’ordine sulla pagina del libro ed essi – microbi o batteri umani – si muovono, parlano, fanno, uccidono e muoiono esattamente come l’autore Sciascia ha capito o deciso che essi debbano.
Di tutti gli scrittori moderni Sciascia è il più antipirandelliano poiché sottrae ai personaggi qualsiasi indipendenza. Non è che Pirandello li lasciasse in totale libertà: li teneva sempre per sottilissimi, invisibili fili in modo che non andassero mai oltre la scena; usava almeno questo sublime, pietoso inganno di concedere ai suoi personaggi statuto di libertà, come un monarca illuminato, tuttavia conducendoli amabilmente a fare solo quello che il monarca voleva. In sostanza gli concedeva soltanto la possibilità di essere (dentro) diversi da quello che (fuori) apparivano o erano costretti ad apparire. Un grande gioco crudele e ridente.
Sciascia invece è tiranno, non concede ai suoi personaggi alcuna facoltà. Essi non sono mai alla ricerca di autore, né mai sono diversi da come appaiono, nemmeno diversi da come vorrebbero essere. Semplicemente sono come Sciascia ha deciso che siano. C’è tutto Sciascia in questo: egli riconosce la libertà soltanto al potere, e riconosce potere soltanto al talento. Soprattutto al suo talento. Per anni Sciascia studiò il grande mistero umano e politico dello scienziato catanese Majorana, improvvisamente scomparso dalla vita mentre viaggiava per nave da Napoli a Palermo. Nessuno, nemmeno i fratelli o gli amici più intimi, riuscirono mai veramente a capire cosa fosse veramente accaduto. Sciascia infine ritenne di sì. Con un piccolo libro cancellò di colpo quarant’anni di misteri, dubbi, angosce, ipotesi d’amore e dolore, paura e vendetta. Probabilmente, anzi certamente, non è vero che Majorana perì come Sciascia ha detto ch’egli perì. Però, quando la gente pensa o parla di Majorana, crede che sia scomparso dalla vita come Sciascia ha spiegato ch’egli scomparve.
8) Il fascino crudele della ragione: Sciascia non è simpatico. Talvolta è affascinante, ma chiunque lo sente diverso, in una sua astrazione intellettuale, dove gli altri uomini non possono penetrare, ma restare in attesa di capire. Sciascia non è mai d’accordo con alcuno. E’ vero, cita verità enunciate da altri, battute, frasi, ma costoro sono morti. Uno dei tratti ammirabili di Sciascia è infatti la straordinaria forza mentale, l’infallibile rigore logico, con il quale anzitutto egli riesce sempre, quasi sempre, a dominare se stesso, riconducendo ogni atto, parola, pensiero, soluzione a quel perfetto personaggio morale che egli ha studiato e costruito di se stesso. Senza mai, quasi mai, una fragilità, un cedimento, per quelle forze antiche e misteriose della sua natura siciliana, per quelle violenze viste, pagate e fatalmente adottate negli anni dell’infanzia e adolescenza. La ragione, cioè la forza mentale di Sciascia è tale, ed anche tale la sua sicurezza nella sua stessa intelligenza, che egli conduce il gioco fino al limite intellettuale, basta una incrinatura e la ragione diventa delirio. Questo è genio. Talvolta (ma è un lampo, per un attimo, davvero appena un lampo) la ragione chiude gli occhi sfinita, e vien fuori don Mariano Arena de “Il giorno della civetta”, abietto persecutore della povera gente e mandante di dieci assassinii, il quale spiega all’ebete capitano Bellodi la classificazione degli esseri viventi: uomini, mezzi uomini, ominicchi, piglianculo e quacquaracquà. E il capitano Bellodi pensa: don Mariano Arena è un uomo!
Oppure Sciascia spiega per quale patetica vanità umana il generale Dalla Chiesa andò a morire, conducendo alla morte anche la ragazza che aveva sposato, e il discorso, senza una sola sbavatura intellettuale, ha una infallibile coerenza da teorema: ma il giovane figlio del generale Dalla Chiesa insorge, si ribella, grida, che la ragione di Sciascia è una logica da mafioso; Dalla Chiesa junior è un giovane, confuso e straziato, il quale sa di certo che il padre andò ingenuamente a cercarsela la morte, ma sa anche che qualcuno dall’imperscrutabile vertice politico lo mandò a morire in Sicilia, e non sa chi, non ha prove, non ne avrà mai. E’ un giovane uomo infelice e furente al quale bisognerebbe soltanto poggiare una mano ferma sulla spalla per dirgli: ragiona con me ragazzo! Invece Sciascia (ecco quel lampo antico, quell’attimo) gli grida semplicemente che è un infame imbecille. Lo cancella, cancella tutto di lui: la sua piccola ragione, il suo dolore di figlio, la ribellione, la disperazione per una giustizia che nessuno gli renderà mai! Sciascia non ammette mai di avere torto. E al servizio di questo principio inalterabile pone la sua geniale matematica intellettuale. Per questo, non fosse stato il più implacabile nemico della mafia, sarebbe stato forse la più perfetta mente mafiosa del secolo.
9) Gli antichi parenti: Sciascia, pur così schivo, timido, delicato, amabile, ama la popolarità. I suoi amici sono sempre di grande censo. Quasi certamente ama molto anche il denaro, scrive su tutto e di tutto, si fa giustamente pagare in proporzione al suo eccezionale merito, e secondo la legge della domanda e dell’offerta.
Sciascia ha questo straordinario ingegno, assolutamente raro e in Italia quasi unico, di cogliere immediatamente il senso storico di un personaggio e contemporaneamente la sua importanza consumistica e di sapere subito nobilitarlo trovando un riferimento illustre nel passato, un altro evento, o fatto, personaggio, idea, pagina scritta, da cui trarre motivo per interpretare il presente. Sciascia cerca parentele antiche ovunque sia possibile trovare una affinità sentimentale, da Voltaire del Candido a Rizzotto de “I mafiosi della Vicaria”. Disprezza il presente troppo rapido, superficiale, feroce, aggressivo, continuamente scontento, troppo vorace di novità, continuamente volto al futuro, senza attenzione per le cose che ancora stiamo vivendo, e già agognando e lottando per le cose improbabili che dovremo vivere domani; il presente torvo, incerto, maligno, avvelenato, stupido, rozzo, computerizzato in cui lo spazio per l’intelligenza umana diventa sempre più ristretto. Sciascia probabilmente odia anche i protagonisti del tempo presente: ruvidi, incolti, violenti, presupponenti, avidi, incapaci di una vera riflessione: presenti che nuotano sempre nella cronaca e non hanno un attimo per capire in quale punto sono del fiume. Sciascia preferisce gli antichi, li sente consanguinei, simili, gli antichi che stavano dentro immense stanze oscure, dietro tavoli ingombri di carte, in mezzo a migliaia di libri di ogni epoca, e con tutto il tempo per meditare sulle cose degli uomini. Così, istintivamente, dovendo parlare del nostro tempo, egli va a cercare gli antichi parenti: la sua conclusione, certamente sbagliata, e tuttavia profondamente siciliana, è che in realtà non accade mai veramente niente di nuovo, ma ogni cosa continua ad accadere come cento o cinquecento anni fa. Nel Sud naturalmente. Tutto accade affinché misteriosamente ogni cosa continui a restare la medesima. Il siciliano Sciascia, che è l’opposto o addirittura la negazione filosofica del siciliano Pirandello, è l’identico del siciliano Tomasi di Lampedusa: la storia del Sud sempre uguale, passione, odio, amore, ambizione, tradimento, infinitamente si ripete. L’unica ipotesi di modificazione è un grande lampo atomico finale, dopo il quale finalmente tutto sarà diverso. O non sarà più!
10) I primi dieci viventi: Sciascia cos’è per gli europei, per gli italiani, per i siciliani? Immaginiamo di compilare una graduatoria degli scrittori italiani viventi, del nostro tempo, basandoci su tre elementi di valutazione precisi: anzitutto il reale talento, cioè l’autentica originalità e profondità di pensiero; poi l’importanza culturale, cioè la valutazione espressa dalla critica ufficiale e quindi la influenza sulla cultura contemporanea; infine la capacità di vendita sul mercato italiano e internazionale. Facciamo conto, sulla base di questi tre elementi, di assegnare ad ognuno dei personaggi in classifica, un punteggio fino a cento, in maniera da stabilire non solo la graduatoria, ma anche il reale distacco fra l’uno e l’altro. Ebbene avremo una classifica bizzarra, discutibile certo, ma che in definitiva rispecchia quelli che sono i valori reali.
Cominciamo dal basso: a quota venti (che essendo la più depressa è naturalmente la più gremita) troviamo quattro scrittori, Carlo Cassola, Carlo Sgorlon, Giovanni Arpino e Vincenzo Consolo, i quali sia pure per motivi ed ispirazioni diversi, esprimono un certo livello medio della narrativa italiana, quella che ronza di continuo attorno ai premi letterari tradizionali. Non ci sono lampi. Mai un tentativo di digressione in altri campi letterari più sofisticati come la saggistica, la filosofia, il teatro.
A quota trenta troviamo Piero Chiara ed Elsa Morante, anche loro profondamente dissimili, e che certo non possono vantare maggiore qualificazione culturale di quei quattro menzionati ma che sicuramente meritano una valutazione più ampia, l’uno per la incredibile fertilità (bisogna pur tenerne conto) e l’altra per il coraggio culturale, diciamo anche una certa impudenza, a passare oltre i confini della pura narrativa.
A quota quaranta, solitario, Gesualdo Bufalino che invece ha scritto un libro solo, però una specie di bagliore, una folgorazione. Bisogna ancora cercare di capire quanto sia capace di scriverne un altro di eguale valore, oppure se tutta la sua ispirazione umana si sia bruciata in quella diceria covata, maturata, putrefatta, purificata per quarant’anni dentro.
A quota cinquanta, anch’egli solitario, senza dubbio Enzo Biagi, che è romanziere assolutamente mediocre, incapace di far nascere e vivere storie autonome dentro di sé, e tuttavia ha questa prodigiosa capacità di interpretare il presente, con tutte le infinite astuzie del mestiere. La sua capacità di vendere e contemporaneamente emozionare, e quindi essere anche divo, gli consente di occupare certamente un posto di graduatoria più alto dei suoi reali meriti culturali.
A quota sessanta, ed anche egli naturalmente solitario, poiché nel contesto della letteratura italiana senza eguali, Alberto Moravia, settant’anni, tutta la vita spesa a raccontare se stesso, la sua infinita noia, il suo costante disprezzo per gli altri, il suo eros, i suoi incubi. Senza dubbio un maestro, forse ormai spento, e forse invece, proprio in questo ultimo tempo della sua vita, nelle condizioni di dolore e serenità per quel capolavoro che non è riuscito mai veramente a scrivere.
Infine a quota cento, unico, lontano da tutti gli altri, perché il più geniale, il più riverito, il più venduto, solitario e irraggiungibile, con quell’enigmatico sorriso da Giocondo, forse mistificatore, forse profeta, Leonardo Sciascia, il quale da solo rappresenta in Europa la letteratura siciliana e italiana nella narrativa, nella saggistica, nella filosofia della letteratura. Forse il più siciliano di tutti i grandi narratori di tutti i tempi, e tuttavia diverso da qualsiasi altro siciliano. ALIEN!
E questo va detto da un siciliano che non ama Sciascia, che si ritiene identico a tutti gli altri siciliani del suo tempo, e in questo trova la bellezza della sua vita.