Sindrome Catania
da “I Siciliani”, aprile 1983
Sindrome Catania è quel tale stato d’animo per il quale, da un anno a questa parte, ovunque in Italia il siciliano viene innanzitutto ritenuto catanese. Ciò perché qualunque cosa sia accaduta in questi ultimi tempi in Sicilia, essa è accaduta a Catania o l’hanno fatta i catanesi. Sono catanesi i cavalieri del lavoro che hanno fatto impazzire mafiologi ed economisti di mezza Europa, che gestiscono ognuno centinaia di miliardi, che costruiscono in ogni parte della Sicilia e dell’Europa, dell’Africa, dell’America del Sud, autostrade, dighe, ponti, grattacieli, chiese, centrali nucleari, chiodi e locomotive. E’ catanese l’uomo che viene braccato sotto l’accusa di aver organizzato e personalmente eseguito con un Kalashnikoff l’assassinio del generale Dalla Chiesa. E’ catanese la Procura generale sottoposta a inchiesta del consiglio superiore della magistratura per accertare se clamorose indagini su evasioni fiscali e collusioni mafiose abbiano subito colpevoli ritardi o siano state addirittura imboscate. Tutto sommato è anche catanese la cooperativa di giornalisti che realizza questo giornale, unica cooperativa giornalistica in tutta Italia che possieda i suoi strumenti editoriali, sia proprietaria del giornale che realizza e non abbia alle spalle alcun potere politico e finanziario che possa deviarla dalla verità. E’ catanese l’unico teatro stabile del Sud: nemmeno Napoli e Palermo che hanno maestà e presupponenza di autentici capitali ci sono riuscite. E’ catanese altresì quel tipo di Siciliano, che gli altri italiani ritengono il più perfettamente siciliano ma che non rassomiglia ad alcun altro siciliano, che non è triste, né superbo, né tragico, né lamentoso, ma sempre allegro, sempre sprezzante, sfottente, ridente. Catanese è infine il dialetto siciliano che gli altri italiani conoscono, lingua parlata da Giovanni Grasso, Angelo Musco, Turi Ferro, una maniera di parlare nella quale non si capisce mai se il catanese stia parlando sul serio o da un momento all’altro ti scoppi a ridere in faccia.
Non è senza motivo dunque che gli italiani abbiano la sindrome Catania, e allora noi senza voler fare scienza della società, e nemmeno tentare di definire se questa sindrome sia inganno o verità, dovuto rispetto o malattia, e quanto questa sia grave o inguaribile, cercheremo più semplicemente di capire cos’è Catania, anzi più esattamente chi è il catanese. E quanto egli sia diverso dagli altri nel bene e nel male.
Dicono che Catania, onde potersi confrontare con Palermo, anzi paradossalmente affrancarsi da Palermo, alla fine si sia inventata la mafia. Per entrare da protagonista negli affari giganteschi della droga, per proteggere politicamente e giudiziariamente i crescenti imperi finanziari, e infine per poter eliminare chiunque (leggi Dalla Chiesa) avesse in animo di opporsi. La realtà probabilmente è un’altra. La realtà è che il catanese è diverso (ecco la sindrome) da ogni altro italiano anche nella criminalità, anzi della genesi stessa della criminalità Le ragioni del catanese sono infatti esattamente il contrario di quelle che muovono la violenza criminale in altre grandi città italiane. Ad esempio Milano è devastata da violenze esterne che arrivano nella metropoli contemporaneamente al flusso migratorio del Sud: decine, centinaia di migliaia di individui che Milano chiama per fornire di braccia la sua evoluzione industriale, una moltitudine di meridionali per lo piú miseri braccianti, contadini, pecorai, manovali, gente povera sradicata da paesi che sembrano di un altro universo e che si porta appresso la speranza di un riscatto sociale, il sogno di una casa confortevole e di un buon salario, ma anche la disperazione di un viaggio senza ipotesi di ritorno e quindi una capacità di violenza dinnanzi a un eventuale inganno. E la grande metropoli (diciamo Milano per citare anche Torino) non riesce ad accogliere tutti, gelidamente accoglie soltanto la forza umana e appaga i sogni di quanti le sono utili o indispensabili; gli altri, i superflui, li rifiuta, li respinge verso i ghetti sordidi della periferia, nei tuguri dove le famiglie si ammucchiano in un unico ambiente, negli stanzoni dove venti persone, calabresi, siciliani, napoletani, dormono insieme peggio che nei lager di Dachau.
Gli alien della miseria, ignoranza, dolore, violenza. Dopo sei mesi sono disponibili a tutto pur di sopravvivere, pur di non tornare nel Sud, nell’antico paese spopolato, a bivaccare dinnanzi a un bar con cinque sigarette soltanto in tasca, ad attendere un lavoro che non arriva, a studiare tutte le arti del leccaculo per un posto di bidello. Trentamila, cinquantamila, forse centomila emarginati, nessuno riesce a capire nemmeno quanti siano, poiché arrivano continuamente, scompaiono, tornano. Basta un criminale di piccolo genio, basta soltanto che uno di loro abbia maggior carica di violenza, più astuzia e fantasia, per radunare attorno a sé un gruppo disponibile ad ogni malvivenza: rapine, scippi, estorsioni, contrabbando, sequestri. Da ogni parte di questa periferia muovono alla conquista della metropoli che li ha chiamati con la seduzione delle sue fabbriche e però li ha respinti, e perciò ingannati. Cioè Milano (o Torino) viene assalita dagli altri, dai diversi, dagli alien .
Bastano le definizioni popolari: «la famiglia dei calabresi», «la cosca dei palermitani», «i fratelli di Mergellina», «il clan dei catanesi» tutti lanciati all’assalto delle grandi prede che la metropoli sprezzante, la grande città gelida e senza cuore, e tuttavia inerme e indifesa, offre alla cupidigia dei disperati: le case da gioco clandestine, i night club, la prostituzione, il racket delle estorsioni, il contrabbando della droga. Spesso in lotta mortale gli uni contro gli altri, per il predominio criminale, ma tutti insieme con eguale ferocia, contro l’immensa città che gronda denaro, trasuda opulenza, pullula di vetrine, grattacieli, empori, ciminiere, e non ha avuto nemmeno il pudore di riconoscere la loro miseria.
A Catania il processo è incredibilmente l’opposto. A Catania negli ultimi quarant’anni non sono arrivati i miserabili dall’interno dell’isola, ma decine di migliaia di famiglie borghesi le quali non cercavano dignità civile, ma prestigio sociale nella più grande città dell’oriente siciliano: agricoltori che vendevano le loro terre per trasferire i piccoli capitali in speculazioni edilizie, giovani professionisti, medici, avvocati, architetti, ingegneri che fuggivano la tetraggine della provincia per scoprire ben altri spazi di lavoro e di affermazione, commercianti che vedevano la loro piccola economia vacillare nei paesi sempre più spopolati dalla emigrazione, e radunavano le forze per tentare nuova fortuna in una città che era l’unico grande emporio di approvvigionamento per almeno sei province e per tre milioni di abitanti, studenti che interrompevano gli studi universitari perché avevano trovato una collocazione politica.
Tutta gente avida, forte, talvolta rapace, spesso dotata di talento, con quella limitata ma precisa preparazione culturale della provincia che riempie i lunghi tedii invernali di letture e polemiche intellettuali, gente comunque animata da fantasia e spirito di iniziativa, indotta dallo stesso complesso di inferiorità ad una aggressività costante, in tutti i settori: gli ospedali, la scuola, l’edilizia, i commerci, le professioni, gli appalti, la politica.
In quarant’anni gli immigrati e comunque i più abili, preparati, aggressivi, intelligenti, si sono impadroniti della città, conquistando almeno il settanta per cento di quel livello sociale che conta e dirige un grande centro civile: le docenze universitarie, le cariche di partito, le clientele professionali, le cliniche, le costruzioni, gli appalti, gli alberghi, le presidenze, le banche. Eccoli i cavalieri del lavoro! Solo un paio di loro sono catanesi, gli altri arrivano dalla provincia, da piccoli paesi, e arrivano quasi sempre con dignitosa povertà, in punta di piedi, con il silenzioso garbo che ha sempre il provinciale che si accosta a Catania e teme che il suo accento ne possa svelare le origini, dapprima una bottega, un piccolo appalto, l’ammissione al salotto borghese, la benevolenza del politico, un negozio più grande, un altro appalto più vasto, un grande magazzino, un palazzo, dieci, cento palazzi, l’industria, l’amicizia del sottosegretario o ministro, dell’alto magistrato, del funzionario di vertice, la villa regale e misteriosa, il grande motoscafo bianco. Mi piace abitare in quell’albergo, è aristocratico e riservato. Me lo compero! Catania non sarebbe Catania se non avesse avuto i cavalieri del lavoro, i quali hanno dato una misura aritmetica all’anima catanese; il denaro, tutto si può fare con il denaro, comperare potenza, buona salute, prestigio e amicizia, e una misura psicologica: l’individualismo, il piacere di essere solo e diventare il solo padrone.
I cavalieri del lavoro vennero in povertà e silenziosamente dai lontani centri della provincia, erano stranieri e tuttavia interpretano perfettamente l’anima catanese, anzi ne danno rappresentazione. Qui c’è la sindrome. Mentre gli immigrati infatti si impadronivano di Catania, contemporaneamente si verificava un fenomeno quasi magico, anche questo tipicamente catanese e che appartiene a pochissime altre città italiane, forse solo a Milano: cioè gli immigrati smarrivano velocemente la loro identità provinciale, le abitudini, le superstizioni del loro territorio, persino la cadenza dialettale, e diventavano perfettamente catanesi, nel linguaggio, nella presupponenza, nello sfrenato individualismo, persino nell’allegria del rapporto con la vita. Catania ha questa facoltà straordinaria: si fa conquistare docilmente da chi arriva e contemporaneamente lo trasforma e lo fa suo.
Questa moltitudine umana arrivata da Caltanissetta, Ragusa, Agrigento, Enna, Caltagirone, Licata, Modica, Lentini, Augusta, decine di migliaia di individui che si portavano appresso non soltanto le famiglie ma anche tutti i loro beni economici, ha dilatato l’economia della città e la sua stessa estensione territoriale. Dapprima ha acquistato gli appartamenti migliori del centro, poi ha edificato migliaia di nuovi terrificanti palazzi, quindi si è impadronita di tutta la zona pedemontana, che sovrasta la città, e dell’intera riviera fino ad Acitrezza, dove ha costruito villaggi residenziali con piscine, campi da tennis, parrucchieri, boutique, alimentari; le famiglie possono abitarci senza necessità nemmeno di uscire, il principio è quello stesso del ghetto, però confortevole, soave, al riparo da ogni pericolo. Tutta la grande plaga verde, da Acicastello ad Acireale, fino a San Gregorio, Gravina, S. Giovanni La Punta, Mascalucia, Tremestieri, si è popolata di villaggi così, quasi invisibili: appaiono per un attimo fra un giardino e l’altro e scompaiono fra una collina e l’altra, in quel misterioso Eden abitato dai duecentomila catanesi più ricchi.
Catania ha conglobato tutti gli splendidi paesini che le facevano corona, li ha trasformati in altrettante città satelliti dalle quali, ogni giorno, per strade diverse, calano tutte in una volta cinquantamila automobili, e all’imbrunire se ne risalgono.
Sono gli industriali, i titolari dei grandi commerci, gli appaltatori, uomimi politici, alti magistrati, grandi professionisti, docenti dell’Ateneo, deputati, architetti, funzionari. Nel vecchio centro della città sono rimasti gli impiegati, studenti, operai, artigiani, piccoli commercianti, droghieri in mezzo ai quali non è più possibile distinguere il catanese nuovo dall’antico: costui sospinto sempre più in basso, verso la pianura, verso Sud, negli sterminati quartieri popolari che hanno nomi mitici e terribili, San Cristoforo, zà Lisa, Fortino, Antico Corso, un dedalo di strade, vicoli, cortili, palazzi fatiscenti, ai quali si sono addossati i nuovi quartieri popolari, subito infami e tristi, nuovo San Berillo, Librino, Monte Po, i duecentomila catanesi più poveri, pescatori, manovali, braccianti, in un territorio dove i servizi sociali, le condutture idriche, le fogne, le scuole, sono ancora quelle di cento anni fa.
Qui, in questa serie di lager, dove non c’è nemmeno spazio per una partita a calcio fra ragazzini, è maturata la criminalità catanese la quale, come tutte le cose di questa singolare città, ha avuto una ragione delinquenziale, diremmo addirittura una immagine sociale e politica, completamente diversa da ogni altra: migliaia, forse decine di migliaia e quasi tutti giovani. Figli di quella parte più povera della popolazione che si è fatta letteralmente espropriare della città, ricacciati ai margini nella indifferenza quasi brutale delle pubbliche amministrazioni, si sono lanciati alla riconquista di Catania: prima lo scippo, il furto, il borseggio, poi la rapina al passante, alla ricevitoria del lotto, alla banca, infine l’estorsione.
Qualunque cosa si dica o si neghi, il novanta per cento delle iniziative economiche o degli esercizi commerciali, da anni pagano una tangente criminale. Ogni tanto la città si insanguinava per uno scontro fra gruppi che si contendevano la supremazia su un quartiere. Centinaia di omicidi. Fra gli assassini e le vittime mai un forestiero, sempre catanesi. Finché i gruppi hanno cominciato ad integrarsi per gestire interessi criminali sempre più vasti, gli scontri sono diventati più feroci, autentiche battaglie con mitra e bombe a mano. La mafia è nata così, quando i clan vincenti sono stati fatalmente chiamati a soccorrere il traffico di droga, decine e centinaia di miliardi che sono costretti a sfiorare Catania.
Una genesi criminale folgorante. Questa è una città nella quale, in pochi anni, un piccolo politico di paese può diventare governatore di un territorio, e un oscuro appaltatore di provincia può trasformarsi in cavaliere del lavoro che fa diventare oro tutto quello che tocca, e un amabile imprenditore, amico dei buoni salotti borghesi, che fino a qualche mese fa stringeva la mano a prefetti e deputati, essere accusato di aver ucciso Dalla Chiesa. Sindrome Catania.
La sindrome sta nella diversità. Quasi un modo diverso di intendere la vita, anzi il piacere della vita, il rapporto fra l’uomo e gli altri uomini. Per esempio a Catania non ci sono mendicanti. Anche questo, in una Italia dove l’accattonaggio è una tradizione quasi popolare (l’accattone, con la prostituta e il ladro appartengono a tutta una letteratura italiana romantica) è un fatto straordinario. Ogni grande città italiana ha i suoi mendicanti, anzi il suo genere di mendicanti: Milano l’accattone ubriaco e fastidioso, che ti segue in mezzo alla folla e ti sta dietro per un chilometro, cerca di salire anche sul tuo tassì; Roma pullula di mendicanti che hanno carattere residenziale, ogni strada ha il suo, come Londra ha il policeman di quartiere, passeggiano lentamente, alla lunga gli abitanti della zona provano anche soddisfazione a essere riconosciuti e salutati con rispettivo titolo accademico; a Napoli in piazza Garibaldi c’è un mendicante che fa il giro di tutti i ristoranti tre volte al giorno travestendosi in tre guise diverse, da ammalato grave, fino a mezzogiorno, da frate cappuccino con la cassetta degli oboli nel pomeriggio, e da disoccupato ebete la sera; a Palermo nel viale Ruggero di Lauria c’è un uomo di mezza età, triste, untuoso, cadente, che chiede l’elemosina fino alle sei del pomeriggio, poi accende una sigaretta, si mette in testa un berrettino militare e fa il guardamacchine, tratta con tristezza ma con maestosa arroganza (il palermitano ha sempre la maestà del suo stato), lo stesso che un’ora prima gli ha fatto l’elemosina. A Catania gli ultimi tre mendicanti famosi scomparvero negli anni Sessanta, forse uccisi da una totale mancanza di elemosine, forse sopraffatti dalla vergogna di essere i soli accattoni in una città che ormai provava solo disprezzo per la povertà. Uno era cieco, autenticamente cieco poiché gli mancavano tutti e due gli occhi, il quale andava adagio adagio per via Umberto, con un pastrano militare, un mandolino e un cane. Il cane andò sotto un autobus, il mandolino glielo rubarono, il cieco scomparve. Un altro era un uomo che si diceva fosse stato un ex cocchiere, impazzito per la morte della sua vecchia giumenta. Si diceva che ne fosse innamorato. Chiedeva l’elemosina per via Etnea, era piccolino, cadente, con un lungo naso come Jimmy Durante, ogni tanto però faceva un terribile nitrito, s’impennava a mo’ di cavallo e cominciava a galoppare fra la folla. Gli correvano tutti appresso. Il terzo era un grande vecchio sordomuto, con un’immensa barba bianca e un violino, camminava da una chiesa all’altra suonando il violino, ma poiché lo strumento non aveva corde egli cercava, con un suono stridulo di gola, di imitare la musica. Essendo sordo non si capiva dove mai avesse ascoltato musica e quindi come potesse eseguirla, e infatti emetteva solo un terribile lamento. Lo ritennero tutti sempre un imbroglione (in dialetto si direbbe un tragediatore) e in una città come Catania, dove ognuno si ritiene d’essere il massimo dei recitanti, era un difetto imperdonabile. La sua uscita di scena fu memorabile, salì sui gradini della Collegiata e volgendosi alla folla della messa domenicale gridò: «Tutti stronzi!».
Ecco, bisogna a questo punto capire quanto e come il carattere di un catanese possa essere diverso da ogni altro. La misura della sindrome. Affacciandosi da un balcone straniero, su una grande piazza per la quale passeggiano centinaia di sconosciuti d’ogni regione europea, dopo un quarto d’ora, solo a sentirli parlare e vederli muoversi, si può essere in condizione di dire: Quello è catanese! Infatti sta recitando. Parlando del catanese balza sempre il confronto con il palermitano. Il regno delle due Sicilie. Fra tutti gli italiani, infatti, catanesi e napoletani sono ritenuti i più recitanti. E’ vero, ma la differenza è profonda: due arti diverse. Il napoletano imbroglia, truffa, inganna per bisogno, e perciò con civiltà, educazione, bonomia, quasi che la vittima dovesse già sapere di essere ingannata e dovere prestarsi amabilmente al gioco: «Dovete scusare, grazie tante!». E il catanese invece per spavalderia, con la convinzione di essere più astuto, intelligente, fantasioso e perciò con una punta di disprezzo per la vittima: «Ma quanto sei coglione!»
In entrambi i casi c’è comunque alla base una ineguagliabile capacità teatrale. Fatto è che fra tutte le popolazioni italiane e probabilmente europee, catanesi e napoletani, per vocazione, per divertimento, per capacità psicofisica sono anche i più portati alla recitazione, cioè alla interpretazione di personaggi diversi da quelli che sono, e non a caso sono dunque le due popolazioni più teatrali. Gli piace, si divertono, ci riescono; pensate che formidabile teatro, ineguagliabile, sarebbe stato quello che avesse posto accanto Angelo Musco e Raffaele Viviani o sarebbe quello che riuscisse a porre, l’uno con l’altro, l’uno contro l’altro, sullo stesso palcoscenico Turi Ferro e Eduardo De Filippo.
C’è sempre una differenza sostanziale. Il napoletano fa teatro (e quindi nella vita imbroglia, finge, recita, ricamuffa) con sentimento, il catanese con ironia, il napoletano in fondo crede al personaggio che interpreta sulla scena o rappresenta nella vita, sia esso camorrista o mendicante, comandante di flotta come Lauro e malvivente come Michele o’ pazzo, collera, pietà, dolore, invocazione, devozione sono sentite e autentiche.
Il catanese invece sta dentro il personaggio con distacco, beninteso tecnicamente in modo perfetto, in modo che nessuno mai capisca come egli sia in realtà un altro, ma in verità se ne fotte, la sua volontà, anzi il suo più intimo piacere non è quello di commuovere gli altri, ma come volgarmente si suol dire, prenderli per il culo e quanto più tutto questo è perfetto, tanto più il catanese si diverte, e si ritiene effettivamente migliore. Lui individuo naturalmente. Poiché c’è anche questo. Che il napoletano, uomo solo, si sente partecipe di quella cosa segreta, fantastica che è l’essere napoletano, la napoletanità, il mondo straordinario di musiche, dolori, invenzioni, miseria, poesia, speranze, bellezza che è Napoli nel suo insieme, case, gente, mare, colori, violenza, mentre il catanese, pur essendo catanese perfettamente anche nello scheletro, ritiene di essere esclusivo cioè unico esemplare vivente con idee, pensieri, sogni, violenze, desideri, capacità evocatrici, potenza sessuale, fantasia erotica, istrioneria, genio di recitazione: sono impareggiabilmente suoi e di nessun altro. Tutti così, da Giovanni Verga allo spazzino, il genio e l’analfabeta. Sicché Catania è fatta da un milione di catanesi, tutti con la stessa anima ed ognuno convinto di avere un’anima propria, singola e ineguagliabile. C’è qualcosa di filosofico in tutto questo. Di positivo e negativo. Di attivo e passivo. La sindrome. Emanuele Kant ci si sarebbe rotto la testa.
Catania dunque integralmente siciliana tuttavia profondamente diversa da qualsiasi altra cosa o luogo, o popolazione, o difetto, o virtù dei siciliani. Il siciliano silenzioso, triste, duro, antico, maestoso come i palermitani, amaro come i nisseni, mite come i ragusani, sognante come i siracusani, e invece il catanese che parla sempre, ride, grida, sfotte, il catanese allegro, senza amore che non sia anzitutto per se stesso, senza sogni che non siano i suoi personali e inconfessabili, il catanese che nel profondo ritiene probabilmente perfezione erotica nutrire desiderio solo per se stesso. Questo catanese che per essere tale, certamente ha in dispregio la violenza e l’assassinio: essendo già il migliore, l’unico, che bisogno ha della violenza per dimostrarlo, basta l’ironia, ecco l’ironia dà veramente un senso compiuto e definitivo di perfezione all’individuo, homo katanensis, ironia per tutto, anche per la morte che è una cosa dovuta, trappola, scherzo, infamia, beffa organizzata da qualcuno che non si sa chi e non si sa perché, astuto e sfottente che si sente ancora più fantasioso, briccone, astuto e sfottente di un catanese e al quale va apposta altrettanta ironia, e se possibile anche uno sberleffo.
Il mese scorso è morto un amico mio, il medico diceva: ma no, stia sereno, roba da niente, una piccola nevralgia, ma lui aveva capito perfettamente che aveva solo due settimane, convocò gli amici, comunicò loro l’imminenza della morte, gli amici sapevano che era vero, ma finsero che fosse uno scherzo; ma smettila, ma vaffanculo! recitarono tutta la sera, si abbuffarono, andarono insieme a puttane.
La sindrome. Una città che ritiene di non aver bisogno della violenza, poiché gli basta l’ironia, che si inventa, e realmente diventa la prima città mafiosa.