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Prima che la notte (una riflessione di Michele Gallina)

Si era già detto tanto su di Lui. Eppure l’ultimo film su Giuseppe Fava mi ha commosso. Bello, sincero e delicato.

E ha fatto risalire alla memoria la conoscenza della figlia di Pippo Fava, Elena, che era stimata professionista quando io ero giovane specializzando all’Ospedale Garibaldi di Catania.

Molto prima che cominciassi a frequentare Nave Garibaldi in Marina, e la casa-museo di Giuseppe Garibaldi a Caprera.

Bene, dicevo che Elena era una donna sempre gentilissima e sorridente; sempre pronta, per lavoro e passione, a distribuire sangue a chi ne aveva bisogno, ai giusti e agli ingiusti; a tutti i figli di quella città che il sangue di suo padre lo aveva versato per strada.

Dunque io uscivo dal Reparto che frequentavo, facevo 10 passi a sinistra e circa 90 a destra, ed ecco dove lavorava Elena. Cento passi di cinisiana memoria, come nel film di Tullio Giordana.

E normale per Catania era il fatto che a 50 passi dal Reparto di Elena lavorasse la nipote (sempre di sangue si parla) di Nitto Santapaola, una brava dermatologa cui chiedevamo spesso consulenze, per curare la pelle dei nostri pazienti.

E in mezzo a questo breve percorso, a numeri di passi intermedi, tanti affiliati della mafia, regolarmente schedati dalla polizia e tutto sommato bravi lavoratori … fino alle 2 del pomeriggio.

Vagavano loro per i viali ove erano posteggiare auto improbabili per un pubblico impiegato; potenti e lucide, ma sporche. Di soldi riciclati.

Talora erano dei medici, ma più spesso erano di proprietà (nel senso fornito da Pierre Prouhdon) dei ‘portantini’, come si facevano chiamare allora con una certa fierezza gli operatori socio-sanitari, e fatto salvo il principio di uguaglianza degli uomini di fronte alla pecunia.

Ho pensato spesso a questa scena, nella mia carriera lavorativa: la figlia della vittima, la la nipote incolpevole del carnefice, e chissà quanti prestanome di mafiosi e gestori di bische clandestine (cronaca vera), si incontravano ogni giorno a timbrare il cartellino di ingresso all’orologio segnatempo.

E avevo spesso ribrezzo, dentro quella città che non mi aveva ammazzato nessuno (se non qualche sogno utopico di società onesta).

Una città non solo connivente, ma proprio contigua, commista e CONVIVENTE, cioè ineluttabilmente simbiotica. Che svolgeva una vita dai diversi principi morali, nelle medesime piazze e discoteche.

Quello che Elena faceva ogni mattina aveva il sapore dell’eroismo; simile, seppure diverso, da quello di Giuseppe.

L’eroismo del donarsi ogni giorno, come un medico di un Centro trasfusionale, nel mondo di sofferenza che un ospedale può essere; l’eroismo semplice e molto logico, simile ad esempio al quotidiano ‘essere figlia’ o ‘essere mamma’.

Si leggeva, inoltre, dal sorriso, che era contenta di farlo, quel lavoro in quel luogo; e questo la rendeva doppiamente eroica.

Allora come hai fatto, Elena, a percorrere ogni giorno quei passi e a calpestare con rispetto quei viali?

Avrei voluto chiederlo a Lei, incontrandola annualmente nella nota e triste ricorrenza del 5 gennaio.

Ma non l’ho mai fatto …

(Michele Gallina su FB)

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